16 agosto 2018 - 23:00

La città divisa in due torna al 1965
«Se serve l’ambulanza a Ponente?»

La profonda frattura determinata dal crollo del ponte ha immani conseguenze sulla vita dei cittadini, sulla loro salute, sul lavoro, sul futuro del porto e della logistica integrata

di Marco Imarisio inviato a Genova

Il ponte Morandi durante la costruzione, in una foto del 1965 Il ponte Morandi durante la costruzione, in una foto del 1965
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Quando sarà finito lo strazio, quando anche l’ultima vittima sarà estratta dalle macerie, Genova si risveglierà nel 1965. In un tempo dove persino qui regnava l’ottimismo, dove questa meraviglia di città era un lato del triangolo industriale, e per quanto grande il porto era soltanto il molo di Sampierdarena e poco altro, mentre sul primo tratto del Ponte Morandi in fase di collaudo venivano fatti sfilare i prototipi della Fiat 124 che l’anno seguente avrebbero invaso le strade dell’Italia del boom economico.

Un muro invisibile

Ma tutto intorno continua a essere l’anno di disgrazia 2018. Ore 16.30 di giovedì 16 agosto, le piazze del centro sono vuote come nei quadri metafisici di Giorgio De Chirico, che per altro aveva la madre di origini genovesi. Il giorno prima del crollo, Il Secolo XIX scriveva nelle sue pagine locali che era rimasto in città solo un abitante su cinque. E sulla strada Guido Rossa c’è un chilometro e mezzo di coda. All’uscita del porto il rettilineo del lungomare Canepa è un’illusione lunga un chilometro, traffico denso ma scorrevole. Poi arriva il tappo. Tutti fermi. Quella è l’unica via che resta per il Ponente, per raggiungere Cornigliano e i quartieri sulle alture, Bolzaneto, Rivarolo, Pontedecimo, l’altra metà di una città che da sempre era divisa in due, fino alla nascita di quel ponte. «Genova Est e Genova Ovest» dice l’urbanista Guido Musso. «Come se all’improvviso ci fosse un muro invisibile. E diciamo la verità, ci vorranno anni per riunire le due parti».

Le ripercussioni sanitarie

Le buone maniere insegnano che non si dovrebbero elencare cifre e numeri mentre si scava alla ricerca delle vittime. Eppure ci sono tanti modi per morire, e rischia di farlo anche la sesta città d’Italia. Da fuori, è una disgrazia, una tragedia enorme, quasi di sicuro un crimine. Ma per chi è dentro, per chi a Genova ci vive, c’è una diffusa consapevolezza della fine, di un disastro collettivo, che inciderà sulle vite di tutti, per chissà quanto tempo. Basta arrampicarsi fino ai palazzoni popolari di Pontedecimo, parlare con Ennio Paglieri, operaio Italsider in pensione, 76 anni, una moglie «malata e in bilico», assistenza continua e due dialisi al mese all’ospedale Galliera, che però è dall’altra parte, come il San Martino, come Villa Scassi. «E cosa succederà quando qualcuno si sentirà male qui a Ponente, se avrò un infarto, quanto ci metterà l’ambulanza ad arrivare?». Basta leggere i comunicati della Regione, che ipotizza per le urgenze di Genova Ovest il trasferimento dei pazienti negli ospedali di Savona e Pietra Ligure, a cinquanta e 80 chilometri di distanza.

L’impatto sulle reti di comunicazione

Nel 1965 il porto era per dimensioni dieci volte più piccolo rispetto ad oggi, e dalle sue banchine usciva meno di un decimo delle merci, dei camion e dei passeggeri che ne hanno fatto uno tra i primi scali logistici in Europa. Nel 1965 non esisteva ancora il Vte, che sta per Voltri terminal Europa, progetto di fine anni Settanta, operatività piena dal 1992, diventato lo snodo logistico più grande importante del porto intorno al quale vive ormai una città intera, in senso non solo figurato. Ci lavorano 12.000 persone, 50 anni fa non arrivavano a 2.000, che diventano 70.ooo a contare l’indotto. Questo fine settimana scenderanno dai traghetti 15.000 auto al giorno, in attesa dei grandi rientri da Marocco, Tunisia, Algeria. Auto che se dirette a Ponente, verso Torino, la Francia, non avranno più quella strada sospesa per aria che teneva insieme l’unica tangenziale che i genovesi abbiano mai avuto, l’autostrada, da Genova Est a Genova Aeroporto, 40 centesimi di pedaggio per due gallerie e un ponte che adesso non c’è più.

Il «tappello»

La bretella di cui si favoleggia per far passare il traffico pesante in entrata e in uscita da ovest, ovvero camion e Tir, non è altro che una deviazione lunga 80 chilometri e un’ora e venti di guida in più, ingresso dalla città a Genova Ovest, poi su fin dopo Serravalle Scrivia e di nuovo giù per la A26 Voltri-Gravellona Toce, l’autostrada dei trafori che mette in comunicazione il porto con il resto d’Italia. Le auto passeranno tutte per quella strada già congestionata oggi, in una città semideserta. Ci vorranno almeno sei mesi e parecchi collaudi per costruire una strada interna allo scalo, che corra lungo i moli. Ma è un «tappello», come dicono qui, un rattoppo come quelli che facevano sul ponte. Perché i camion che intaseranno la città saranno molti di più. Nel disastro è passata quasi come una nota a margine la chiusura della ferrovia sepolta dalle macerie, un’arteria su cui viaggiavano ogni settimana 70 treni merci.

Danni per 1,5 miliardi

I conti si fanno subito, purtroppo. Per i primi 60 giorni dopo il disastro gli esperti di settore calcolano un danno per le attività del porto di almeno 1,5 miliardi. E nonostante le vane parole, nessuno può dire davvero come sarà l’esistenza quotidiana quando torneranno tutti, quando le fabbriche riapriranno e ricomincerà la produzione. Per questo i genovesi si guardano smarriti, si chiedono cosa sarà di loro adesso che sono stati ributtati indietro in un tempo lontano. Non sono disagi, sono posti di lavoro, qualità della vita, ansia per un futuro che all’improvviso è diventato cupo. «E adesso se ti penso io muoio un po’» canta De Andrè figlio. «Se penso a te, Genova che non ti arrendi».

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