Rossana Pasquino, docente di ingegneria e campionessa del mondo di scherma in carrozzina

diVincenzo Pascale

«I miei sostegni principali sono stati la famiglia e gli amici. I miei genitori mi hanno sempre spinto a fare, a rischiare, a combattere e a lavorare duro, in tutto»

Una grande eccellenza italiana. Non alla guida di un mega laboratorio in qualche centro di ricerca all’estero ma a Napoli, al Dipartimento di ingegneria della Federico II e protagonista sulle pedane della scherma mondiale. Parliamo di Rossana Pasquino, professore ordinario di Ingegneria chimica e schermitrice plurititolata in Europa e nel mondo nelle specialità sciabola e spada. Pasquino è una atleta paraplegica, costretta su una sedia a rotelle da 28 anni. I suoi guai cominciarono all’età di 9 anni con un infarto midollare. Una vita spesa tra studi di ingegneria, la famiglia, gli amici e da sette anni con la scherma, presso il Centro Schermistico Partenopeo di Sandro Cuomo e l’accademia olimpica beneventana di scherma di Dino Meglio e Francesca Boscarelli. Curriculum accademico e palmares sportivo di primo ordine. Laurea con lode nel 2005. A seguire dottorato di ricerca a Napoli ed esperienza all’estero. Vincitrice della prestigiosa borsa di ricerca Marie Curie. Nomina a professore associato nel 2018. Nello stesso anno abilitata a professore ordinario. Palmares sportivo da urlo. Medaglie e titoli raccolti in ogni angolo del mondo: individuale ed a squadra. Tra essi spiccano la medaglia d’oro nel 2019 ad Amsterdam (sciabola), e l’oro individuale agli Europei di Scherma integrata (spada). Saltate le Paraolimpiadi di Tokyo per il Covid 19, Rossana Pasquino dovrà attendere il 2021 per altri allori. I tempi e le modalità di contatto ai tempi del Covid 19 ci permettono una lunga conversazione via Zoom con la professoressa. Eccone il resoconto.

Partiamo da questo periodo, fuori dall’ordinario, del Covid 19. Parliamo della sua giornata tipica pre Covid 19 e quella attuale.
«Pre Covid 19. Sveglia alle 7:30, doccia, colazione e si esce per il lavoro. Tra insegnamento, ricevimento studenti, gestione tesisti e dottorandi, laboratorio e scrittura di testi scientifici, riunioni dipartimentali. Così via fino alle 18 (almeno). Pranzo in facoltà con cibo preparato a casa. Poi palestra. Direttamente dal lavoro. Gli allenamenti variano secondo i giorni e gli impegni agonistici in calendario. Rientro a casa non prima delle 21:30. Con la pandemia tutto trasferito a casa. Ed ho lavorato anche di più, ma con ritmi meno serrati e senza dover incastrare mille cose».

Parliamo della sua condizione di disabile vissuta a Napoli. Trova ostacoli nello spostarsi in città?
«Napoli non è una città semplice (per i disabili), ma ho il mio equilibrio e credo che il trucco sia tutto lì. I posti che frequento sono più o meno gli stessi. Evito il centro storico dove il sanpietrino (bellissimo, tra l’altro) e i saliscendi mi possono infastidire particolarmente. Ma c’è poco da fare. Difficile spostarsi con i mezzi pubblici. Direi impossibile. Le metro sono, per esempio, piene di scale (parlo delle linee vecchie). Devo dire che le stesse difficoltà le ho trovate a Roma, come a Milano (come a Parigi o a Londra). Sono legata alla mia automobile, è un tassello fondamentale, come la mia sedia a rotelle. Ed anche con l’automobile il quesito parcheggio in centro esiste ed è anche abbastanza serio. Ho riscoperto, quando necessario, il valore del taxi».

Secondo lei in Italia si fa abbastanza per i disabili?
«I miei sostegni principali sono stati la famiglia e gli amici. I miei genitori mi hanno sempre spinto a fare, a rischiare, a combattere e a lavorare duro, in tutto. Siamo una famiglia non ricca, agiata. I miei fratelli, i miei cugini ed i miei amici mi hanno sempre coinvolto in tutto. Abbiamo sciato, siamo stati in barca e sul motorino (con le gambe legate). C’è sempre stato desiderio di inclusione, e forse questo me lo sono portato dietro durante la mia crescita. Mi sentivo già inclusa, prima ancora di esserlo. E porsi così aiuta, e molto. Credo che in Italia si faccia ancora tanta fatica a parlare di cose scomode. C’è poca informazione sul disabile in genere. Troppi tabù. La “vita del disabile” resta una sorta di sfiga e il pietismo è facile. Un pietismo sicuramente più forte qui, in Italia, che all’estero. Almeno per la mia esperienza.. Diventa poi incredibile una storia come la mia. Ma io non sono “speciale”. Sono una che fatica, che non si abbatte, che pedala come tanti. Non particolarmente intelligente o talentuosa, ma molto curiosa e volitiva. Devo dire che in questi 28 anni di disabilità ne ho visti di miglioramenti. E credo che le storie di Alex Zanardi e Bebe Vio hanno sicuramente fatto la differenza. Stima ed ammirazione per persone che “in genere” richiamano pietismo. Forse il gioco sta qui. Rivoluzionare la prospettiva, partire dal concetto di unicità più che di differenza. C’è bisogno di fare comunicazione e formazione. Ed aiutare chi, da disabile, non ha una famiglia forte alle spalle che possa essere di supporto».

Da chi le sono arrivati i maggiori sostegni umani e professionali?
«Quelli umani, sicuramente dalla famiglia. Per il resto non credo di avere mai avuto corsie preferenziali a livello professionale. Ho studiato, sudato, e mi è andata molto bene. Visto il percorso. Sicuramente mi sono sentita supportata anche dal sistema universitario, ma non per la mia diversità. Forse è più una questione pura di professionalità (ed empatia), e non penso dipenda dalla mia condizione».

Lei si sente più docente universitaria o atleta?
(Risata) «Bella domanda. Mi sento entrambe e non in modo univoco. Porto un po’ della mia professionalità in pedana e un po’ di agonismo e sportività in cattedra. Se penso ad una lista di priorità ed a come mi presenterei a qualcuno, alla classica domanda “che fai nella vita?” risponderei sono una docente universitaria ed una atleta. Credo l’ordine sia questo. Forse dettato dal fatto che lo studio, la ricerca e la docenza hanno occupato una parte temporalmente più significativa rispetto all’agonismo schermistico nella mia vita finora. Ne riparliamo, però, fra una decina di anni. Magari avrò invertito l’ordine o aggiunto una nuova priorità».

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10 luglio 2020 2020 ( modifica il 10 luglio 2020 2020 | 07:59)