17 marzo 2018 - 00:03

Storia di Segen, il migrante morto dopo lo sbarco in Italia. Pesava 35 chili

Il giovane, 22 anni, era fuggito dall’Eritrea. Prima di tentare la traversata del Mediterraneo era rimasto per un anno e mezzo in un centro di detenzione in Libia. Gravemente malnutrito, una volta arrivato in Sicilia era stato portato in ospedale per una sospetta tubercolosi polmonare

di Andrea Federica de Cesco

Segen, 22 anni, in uno scatto realizzato da Kepa Fuentes a bordo della nave della ong spagnola Proactiva Open Arms (Reuters/Kepa Fuentes) Segen, 22 anni, in uno scatto realizzato da Kepa Fuentes a bordo della nave della ong spagnola Proactiva Open Arms (Reuters/Kepa Fuentes)
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«Sembrava un uomo scampato da un campo di concentramento. Era pelle e ossa, senza un filo di adipe, con i muscoli ipotrofici. È stata una scena molto dura». Roberto Ammatuna era presente quando lunedì 12 marzo una nave della ong spagnola Proactiva Open Arms ha raggiunto Pozzallo, il Comune siciliano di cui è sindaco. Subito dopo l’attracco un medico del porto è salito a bordo per verificare — come si fa di consueto — che nessuno dei 92 migranti imbarcati fosse affetto da qualche malattia di carattere epidemico. La sua attenzione è stata quindi catturata da un ragazzo incredibilmente magro, con evidenti problemi respiratori. Lo ha fatto sbarcare per primo. Il giovane è stato portato nell’hotspost della cittadina in provincia di Ragusa, e poi condotto in ambulanza all’Ospedale Maggiore di Modica per una presunta tubercolosi polmonare.

Aveva lasciato la Libia su un gommone la sera di sabato 10 marzo. Il giorno dopo era stato soccorso dalla nave di Proactiva Open Arms. La mattina del 12 aveva toccato il suolo siciliano. Nel giro di qualche ora è morto in un letto d’ospedale mentre si apprestava a fare una Tac. «La causa del decesso è stata una cachessia — ossia un deperimento — polmonare», specifica Ammatuna, che è anche il primario del pronto soccorso dell’ospedale di Modica.

In fuga dall’Eritrea
«Il suo nome era Segen. Aveva 22 anni», ci racconta Kepa Fuentes, che lo ha fotografato durante la missione di salvataggio. «L’ho letto sul cartellino che aveva al polso. Il suo numero identificativo era il 37». Fuentes e Segen hanno trascorso insieme 24 ore.«Il primo scatto che gli ho fatto risale alle 11.15 di domenica 11, l’ultimo alle 11.06 di lunedì 12», spiega il fotografo. «Sapeva l’inglese, ma era debolissimo e faceva fatica a parlare». Segen era in fuga dall’Eritrea, il suo Paese d’origine. Anche la maggior parte dei suoi 93 compagni di viaggio, di cui sette donne e 12 minori non accompagnati, proveniva dal poverissimo Stato del Corno d’Africa. Due erano stati portati sulla terraferma immediatamente dopo essere stati tratti in salvo dalla nave della ong spagnola, salpata da Malta. Le condizioni di Segen, che pesava 35 chili per 1,70 m d’altezza, non erano invece state giudicate abbastanza gravi da giustificare un’evacuazione d’emergenza. «Quando lo abbiamo soccorso era in ipotermia e presentava chiari sintomi di disidratazione e di malnutrizione», spiega Guillermo Cañardo, coordinatore del team medico di Open Arms. «Lo abbiamo riscaldato con delle coperte isotermiche, ha assunto cibo e acqua per via orale».

«Lo ha ucciso la Libia»
Per quale motivo, allora, Segen è morto poco tempo dopo essere sbarcato? «Aveva acquisito un buon livello di coscienza, era riuscito ad andare in bagno, rispondeva bene ai trattamenti... Stava migliorando», ci dice Òscar Camps, il fondatore di Proactiva Open Arms. «Episodi simili sono già successi in passato. In un caso, un paziente in coma che avevamo tenuto in vita sulla nave con la ventilazione assistita è morto poche ore dopo il nostro arrivo a Lampedusa. Non possiamo sapere se l’ambulanza che ha trasportato Segen fosse equipaggiata a dovere, o se sia stato commesso qualche errore a livello medico...». Cañardo , al contrario, non ha dubbi: «Il ragazzo è morto a causa della Libia, non dell’Italia. Le condizioni mediche e igieniche lì sono terribili, e lui era parecchio debilitato: in situazioni simili il cuore e gli organi interni si indeboliscono molto».

Un anno e mezzo da schiavo
Prima di tentare la traversata del Mediterraneo, Segen in Libia c’era rimasto un anno e mezzo. Nei suoi racconti stentati aveva accennato a un «carcere» e aveva detto di essere stato trattenuto con la forza e schiavizzato. Secondo Camps, probabilmente era stato rinchiuso in uno dei centri di detenzione che costellano lo Stato nordafricano, divisi fra centri ufficiali — una decina, gestiti dal Governo di Tripoli (ufficialmente, Governo di Accordo Nazionale libico), caratterizzati da un minimo di assistenza e ospitanti in totale fra i 500 e i 700mila migranti — e i ben più numerosi centri illegali — controllati dalle milizie cittadine e concentrati nel deserto. Fra questi ultimi, uno dei peggiori è quello di Bani Walid: qui i migranti vengono sistematicamente ridotti in schiavitù, torturati, costretti a lavorare in nero. Chi non ha pagato in anticipo il viaggio verso l’Europa è obbligato a rimanere in posti del genere anche per tre o quattro anni, alla mercé di carcerieri e trafficanti. «Gli eritrei, in genere, pagano prima di partire, quando si trovano ancora in Eritrea. Oppure, lo fanno le loro famiglie per loro. Comprano una sorta di pacchetto completo, che include anche la traversata del Mediterraneo, e viene assegnato loro un codice», spiega Cañardo. D’altra parte, nessuno garantisce che tutto andrà come previsto. L’imprevisto, nel caso di Segen, si è tradotto in un anno e mezzo in Libia.

La situazione nel Mediterraneo
«Troviamo casi sempre più gravi. Da quando l’Italia e l’Unione Europea stanno negoziando con la Libia, la condizione dei migranti che riescono a raggiungere le coste europee è in continuo peggioramento», commenta Camps. «È vero, il numero delle persone che arriva nel vostro Paese è diminuito. Ma a quale prezzo? In Libia i diritti umani non sono rispettati. Se le famiglie non pagano, i migranti sono uccisi o venduti a gruppi di trafficanti». Dal marzo 2015 Proactiva Open Arms ha soccorso quasi 59mila persone - l’equipaggio standard delle sue navi è composto da 19 membri, di cui 6 marinai professionisti e 13 volontari. Ma operare nel Mar Mediterraneo è sempre più complicato: giovedì 15 marzo, per esempio, una nave della ong spagnola è stata inseguita da una motovedetta libica che minacciava di aprire il fuoco se i volontari non avessero consegnato le donne e i bambini salvati poco tempo prima da un gommone. «Che senso ha distinguere fra migranti economici (come è probabile che sarebbe stato definito Segen se fosse vissuto abbastanza a lungo, ndr) e migranti politici?», si chiede Ammatuna, il sindaco di Pozzallo, aggiungendo che i migranti a bordo della nave Proactiva su cui viaggiava Segen (alcuni dei quali sono affetti dalla scabbia) si trovano nel centro della cittadina siciliana. «Se non ci facciamo carico di loro, queste persone sono condannate a morte. Che sia di fame o per la guerra».

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