28 settembre 2020 - 07:55

Coronavirus, la mascherina potrebbe essere un «vaccino rudimentale»?

Gli scienziati ipotizzano una teoria (non ancora provata): chi indossa le mascherine è esposto a poche particelle del virus, ma quanto basta per attivare una risposta immunitaria

di Cristina Marrone

Coronavirus, la mascherina potrebbe essere un «vaccino rudimentale»?
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La mascherina, già vista da molti scienziati come la protezione più efficace contro Covid-19 potrebbe nascondere anche un altro vantaggio? Un team di ricercatori alcuni giorni fa ha presentato una singolare teoria: le mascherine potrebbero contribuire a immunizzare in modo grossolano alcune persone contro il coronavirus. La teoria è provocatoria e non ancora dimostrata ma secondo alcuni scienziati, in attesa di un vaccino solido sicuro ed efficace, la mascherina potrebbe diventare un «vaccino» rudimentale contro il coronavirus perché, schermando l’ingresso del virus in grandi quantità potrebbe però comunque permettere a poche particelle virali di passare e penetrare nelle vie respiratorie di chi la indossa, attivando quindi un processo di immunizzazione contro il Sars-CoV-2, pur con un’infezione senza sintomi.

Non può sostituire il vaccino

Naturalmente portare la mascherina non può sostituire un vaccino. Tuttavia portare la mascherina a livello universale potrebbe aiutare a ridurre la gravità della malattia garantendo che una percentuale sempre maggiore di nuove infezioni sia asintomatica. Se questa teoria venisse confermata indossare la mascherina potrebbe diventare una forma di «variolizzazione» generando immunità e rallentando la diffusione nel mondo. A sostenerlo è Monica Gandhi, infettivologa della University of California di San Francisco con un commento sulle pagine del New England Journal of Medicine. «Puoi avere il virus ma essere asintomatico, quindi con le mascherine puoi aumentare il tasso di infezioni asintomatiche, e magari questo potrebbe diventare un modo per inoculare in maniera sicura il virus nella popolazione» scrive l’infettivologa.

Che cosa è la variolizzazione

L’idea si ispira al concetto secolare di «variolizzazione», l’esposizione deliberata a un agente patogeno per generare una risposta immunitaria protettiva. Provata per la prima volta contro il vaiolo, la pratica rischiosa alla fine cadde in disgrazia, ma aprì la strada all’ascesa dei vaccini moderni. Nel dettaglio la variolizzazione era un metodo di protezione dal vaiolo utilizzato prima dell’arrivo del vaccino e consisteva nell’inoculare, nel soggetto da immunizzare, del materiale prelevato da lesioni vaiolose o dalle croste di pazienti non gravi. La persona da proteggere veniva messa in contatto con qualcuno affetto da Variola minor, una forma lieve di vaiolo, in modo che venisse contagiata. Dopo circa una settimana la persona contagiata sviluppava il Variola minor da cui guariva senza riportare esiti cicatriziali pur ottenendo un’immunità permanente nei confronti del Variola vera e del Variola haemorragica, le forme gravi della malattia.

Gli studi

Sarà però difficile testare l’efficacia di questo ipotetico metodo che si rifà alla pratica ormai obsoleta della variolizzazione. Per ora alcuni studi su animali hanno dimostrato che inoculare piccole dosi di coronavirus provoca una malattia blanda, non grave, spiega Gandhi, e alcune evidenze epidemiologiche (ad esempio nei focolai creatisi sulle navi da crociera o in altri luoghi affollati ma in cui tutti indossavano le mascherine) mostrano che l’uso della mascherina in presenza di soggetti positivi al virus può favorire dei focolai prevalentemente asintomatici. Uno studio condotto ad Hong Kong sui criceti ha scoperto che i roditori con una mascherina chirurgica sulla gabbia avevano meno probabilità di ammalarsi di Covid nonostante la gabbia confinante ospitasse criceti infetti. E anche se si ammalavano sviluppavano forme lievi .

I commenti degli scienziati

«È una teoria interessante con un’ipotesi ragionevole» ha dichiarato all’Afp Archie Clements, epidemiologo alla Facoltà di Scienze della Salute alla Curtin University in Australia. Altri scienziati hanno espresso riserve. Angela Rasmussen, virologa della Columbia University di New York, ha detto di essere «piuttosto scettica sul fatto che questa sia una buona idea» facendo notare che non sappiamo ancora se una dose più bassa di virus significhi davvero una malattia più lieve. Inoltre durata e livello di immunità sono ancora poco conosciuti.

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