20 giugno 2020 - 23:15

Mario Corso, morto un talento puro, incompreso dalla critica: si giocò la Nazionale per un gesto dell’ombrello

Era in anticipo sui tempi, un trequartista puro: è stato uno dei migliori d'Italia, decisivo come Pirlo, maligno come Platini. Ora merita il posto che non gli abbiamo mai dato

di Mario Sconcerti

Mario Corso, morto un talento puro, incompreso dalla critica: si giocò la Nazionale per un gesto dell'ombrello
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Per Gianni Brera, Corso era soltanto il participio passato del verbo correre, qualcosa che non gli apparteneva. Brera non amava gli artisti, gli sembravano delle auto-definizioni, parole senza senso compiuto.Lui si definiva un principe della zolla, era dalla terra nuda che tutto doveva nascere. Ma su Corso sbagliava, come sbagliò su Rivera. Corso era anche un atleta, lento, ma fisicamente duro. Non riteneva di aver bisogno di correre, ma non era facile spostarlo. Guardate le fotografie dell’epoca, vedrete muscoli da mezzofondista.

Dicevano che era atipico ed era quello il primo errore. Non si è atipici se si giocano più di quattrocento partite in serie A e si segnano 104 reti in carriera. Un umorale forse, come Platini, ma non un atipico. Corso era un trequartista puro, ruolo che allora non c’era, stava nascendo dalle parti di Rivera ma non era capito. Allora si andava un po’ a spanne, o eri attaccante o un centrocampista. Bulgarelli, De Sisti avevano la qualità dei fantasisti, ma facevano il lavoro di regia, molto più applaudito dai critici, perché più logico, più normale. Come Mazzola l’attaccante. D’altra parte allora non c’era televisione, nessuno vedeva il calcio, solo Brera e pochi altri. E alla fine eri quello che loro decidevano, anche se non lo eri.

In realtà Corso è stato uno dei giocatori migliori che l’Italia abbia mai avuto. Certe sue invenzioni le ha avute solo Maradona. Discontinui sono tutti i giocatori quando vivono cercando il colpo diverso. Perché non sempre viene e nel frattempo perdi tempo. Ma Corso era sempre dentro il campo, vittoria dopo vittoria, spesso decideva lui. Era un titolare fisso nonostante Herrera non lo sopportasse perché era il cocco della signora Erminia Moratti, aveva paura gli parlasse male di lui. Eppoi Herrera era un sofista elettrico, Mariolino un epicureo, non erano nati per capirsi. A ogni apertura di mercato Herrera faceva la lista dei partenti e la dava a Moratti. Al primo posto sempre Corso. Moratti aumentava lo stipendio a Herrera e si teneva Corso. Ma anche Herrera se lo teneva e lo faceva giocare sempre. Ma quale discontinuo. Era divino ed esatto, un giocatore straordinario che non aveva bisogno di correre quanto gli altri, faceva correre il pallone. Oggi farebbe la differenza nell’Inter, nella Juve e in Nazionale. E nel suo cuore lento aveva anche carattere. Quando Giovanni Ferrari lo escluse dai convocati per il Mondiale in Cile, nel 1962, in fondo a una partita di notte in cui dette spettacolo, Corso lo andò a cercare sotto la tribuna e lo mandò a quel paese col gesto dell’ombrello. Compromise per sempre il suo rapporto con l’azzurro. Questo è coraggio, è dignità. Sapeva di avere ragione lui. Peraltro l’Italia in Cile andò malissimo.

Era molto amato dai compagni perché li faceva vincere. Tagnin diceva che «se era in buona giornata Suarez sapevamo che non avremmo perso; se era in buona giornata Corso, sapevamo che avremmo vinto». Il commissario tecnico della Nazionale israeliana, Mandi, nel ’62 stava battendo l’Italia a Tel Aviv 2-0 alla fine del primo tempo. Poi entrò Corso, aveva vent’anni. Segnò due gol, rovesciò da solo il gioco e il risultato. Per Mandi fu come un’apparizione: «Ho visto il piede sinistro di Dio».

Poi le sue punizioni, sempre uguali, sempre dalla stessa posizione, sempre prevedibili e sempre in gol. Le chiamarono «a foglia morta». Noi diamo definizioni a tutto quello che non capiamo, serve a normalizzarlo. Ma nessuno in Italia ha mai più battuto punizioni così. Maradona, Mihajlovic, Del Piero, Totti gli davano più forza. Corso era inerzia, pigrizia, esattezza. Una presa in giro. Mi dispiace veramente sia morto in silenzio. Il poco che era la Nazionale di allora non ne ha fatto un giocatore di tutti, solo degli interisti. Ma Corso era infinito e divisivo, era il faro che non vuole essere visto, aveva dentro Coppi e Bartali insieme, l’intera valigia del calcio che portava senza avvertirne il peso, irraggiungibile. Quando nel 1970 andò via Suarez se ne ebbe la conferma. Corso scalò in regia, aveva ormai trent’anni, era completo. E l’Inter riprese a vincere.

Il calcio non ha quasi mai memoria, si ricorda solo quello che si vede. Tanti ragazzi mi scrivono per chiedermi se davvero Baggio sia stato come Zico. Ne dubitano, non lo conoscono. Nel calcio vince l’ultimo che ha fatto gol. Per Corso spero avvenga l’opposto. Merita un posto che non gli abbiamo mai dato. È stato limitato dai luoghi comuni di una critica che era l’unica allora ad avere diritto di parola. Ma se riusciamo a capire che è stato decisivo come Pirlo e maligno come Platini, forse gli rendiamo la giustizia che merita.

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