Milano, 4 agosto 2017 - 22:40

Covacich: la mia estate senza social frequento solo amici in carne e ossa

I miei coetanei si scambiano chat e messaggi vocali: o li invidio, ma frequento solo persone reali (con i quali i rapporti non si riducono a un like) che posso abbracciare

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Per qualche oscura ragione sono rimasto imprigionato nel ventesimo secolo. Persone di venti anche trent’anni più vecchie di me sono passate senza problemi all’uso dei social, ritrovandosi vive ogni giorno e felici di esserlo nei saluti quotidiani di migliaia di amici. Io non ce l’ho fatta. Guardo con molta invidia tutti questi miei coetanei, cinquantenni che inforcano gli occhiali da presbite ai semafori e digitano lunghi messaggi prima del verde. Ma osservo anche tutte queste ragazze e questi ragazzi che si ignorano seduti l’uno accanto all’altro in metropolitana o ai tavoli condivisi dei fast food mentre mandano le loro foto ad amici sempre stranieri o comunque lontanissimi, giovani tutti più o meno carini (ma dove sono finite le belle facce brutte di una volta?) che scambiano messaggi vocali via WhatsApp usando il telefono come un walkie-talkie.

Orgia digitale

Le donne poi, tutte queste donne avvenenti, che digitano spiritosaggini con le loro protesi ungulari piene di bordurine e ricevono sempre una messe di emoticons vivacissimi. Attraverso ogni giorno la città arroventata, il cappellino in testa, il telefono muto in tasca (a mo’ di salvavita), e mi immergo nella allegra invasione dei turisti, una massa di individui speciali che si ritraggono con i loro selfie stick dando sempre le spalle al mondo, il monumento piccolissimo e la loro faccia in primo piano. Migliaia di autoritratti che partono ogni minuto da Piazza del Popolo o Trinità dei Monti verso i loro like elettrizzanti, migliaia di individui che aspettano un riscontro e la sua piccola dose di serotonina, chini sullo schermo, impalati in mezzo agli altri, belli e allegri come loro, eppure invisibili. Li vedo io, che non ho profili, né stick, né fotocamera.

Pochi ma buoni

Eppure qualche amico mi è rimasto. Quelli meno indulgenti mi accusano di snobismo, invece si tratta solo di pigrizia, più paura, più un forte attaccamento alle vecchie abitudini. La volta che più mi sono avvicinato a un comportamento da social è stato quando ho lasciato una ragazza per telefono. Parliamo di vent’anni fa, si può dire che ero all’avanguardia. In realtà mi sono sentito una carogna, ancora oggi ci ripenso. Ma almeno ci siamo parlati. Ho dovuto ascoltare i miei stupidi balbettamenti, le mie frasi fatte, gli enormi iati di silenzio, e poi tutti quei singhiozzi, la voce di una persona a cui in fondo avevo voluto un po’ di bene, che di colpo si rompeva per colpa mia. Oggi invece ci si può sfilare in un attimo. Capisco bene il sollievo di un breve congedo in chat, però non so, anche a proposito di amici, a me piace che l’amicizia mi costi qualcosa, che si formi lentamente e si consolidi attraverso prove impreviste di lealtà e anche sì, piccoli traumi. Quindi —è facile intuirlo — restano rari nantes, o se si vuole, quattro gatti.

Il valore di un abbraccio

D’estate poi, è ancora peggio. Sergio gira un po’ a Milano e un po’ in Calabria, Francesco è partito per l’Indonesia da cui mi arrivano rare mail piene di amore e contrizione. Gianfranco e Alberto li raggiungo al capo opposto di Roma per pranzare all’indiano coi ventilatori al soffitto e il canale satellitare di Mumbai. Con Alberto gioco anche a scacchi una volta alla settimana, da me, perdendo quasi sempre, ma è un supplizio a cui mi sottopongo di buon grado (sto parlando di uno che, finito il suo turno di dodici ore al pronto soccorso, si è precipitato di nuovo all’ospedale e si è rimesso il camice non appena ha saputo di un mio malore). Passiamo interi pomeriggi uno di fronte all’altro senza dirci una parola. Ora che farò un po’ di vacanza a Trieste, vedrò Gian Mario. Quando abitavo a Pordenone stavamo insieme una mezzoretta ogni sera, il tempo dello spritz e quattro battute sui passanti. Da Pordenone a Trieste è un’ora e mezza di macchina. Viene lui da me perché regge meglio l’alcol (non so come potrei guidare dopo una cena così). Andiamo a mangiare lo stinco sul Carso, in una gostilna slovena che ci divertiamo a chiamare Gombrowicz per la somiglianza dell’oste con lo scrittore polacco. Una delle ultime volte Gian Mario mi ha detto che non gli piace per niente come leggo. L’ha fatto con la solita brutalità. Io mi sono offeso e gli ho detto cose ancora peggiori, ma aveva ragione lui. Gli è costato molto parlarmi con franchezza, mandare a rotoli il nostro piccolo rito, col rischio di sfasciare un rapporto fraterno che dura da venticinque anni. Quattro gatti possono sempre diventare tre, ma è difficile togliergli l’amicizia, a maggior ragione se non ti mettono un like. In fondo, la richiesta di noi moralisti del Novecento è la stessa dei Baustelle: «Per piacere, non andare a navigare sulla Rete, stringi forte chi ti vuole bene».

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