23 febbraio 2020 - 00:10

Addio a Barry Hulshoff, il pilastro dell’Ajax di Cruyff: «Il calcio totale? Geometria e istinto»

Il difensore è morto a 73 anni dopo una breve malattia. Nel ricordare la rivoluzione del calcio olandese era solito dire che «molti ci ricamarono sopra delle teorie». Ma lui stesso, se doveva spiegarlo, ricorreva a complicati diagrammi. E parlava di spazio...

di Tommaso Pellizzari

Addio a Barry Hulshoff, il pilastro dell'Ajax di Cruyff: «Il calcio totale? Geometria e istinto»
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L’uomo che vedete nella foto, scattata il 30 maggio 1973, è stato decisivo per la conquista della Coppa dei Campioni quell’anno vinta dall’Ajax sulla Juventus. L’altro, a sinistra, è Johan Cruyff. Non vi sembri indelicato riciclare una vecchia battuta per ricordare Barry Hulshoff, leggendario difensore centrale della squadra olandese che ha cambiato la storia del calcio, morto il 17 febbraio a 73 anni (un mese dopo Pietro Anastasi, battuto in quella finale) per una breve malattia. Leggete, invece, cosa gli successe anni dopo in un paesino di montagna della Grecia, nel suo racconto in prima persona: «C’era un uomo anziano in piedi davanti a me. Mi prese le mani, le strinse e iniziò a piangere. Andò avanti per quattro o cinque minuti. Ero molto imbarazzato, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Più tardi il mio traduttore me lo spiegò. Disse che nel villaggio non c’erano televisori, perciò quel vecchio doveva farsi due ore a piedi per raggiungere un altro villaggio per guardare le partite dell’Ajax in tv. E in quell’altro villaggio guardavano l’Ajax (...), tante persone ammassate attorno a un solo televisore. L’uomo aveva amato l’Ajax e ora si ritrovava davanti uno dei giocatori che aveva visto giocare. Non riusciva a spiegarselo e si era fatto prendere dall’emozione». D’altronde, ricordava il suo compagno di squadra Sjaak Swart, «quando arrivava una palla alta potevi lasciare tranquillamente la posizione perché sapevi che Hulshoff l’avrebbe colpita di testa».

Il nesso

Queste parole, come l’aneddoto greco, compaiono in «Brilliant Orange. Il genio nevrotico del calcio olandese», scritto dall’inglese David Winner nel 2000 e pubblicato in Italia nel 2017 da minimum fax. Meglio tardi che mai, e questa frase fatta sia intesa come il più sentito dei complimenti a chi ha finalmente tradotto uno dei più bei libri sul calcio mai scritti, in cui Winner cerca di spiegare il nesso tra le dighe, la pittura del ’600 e l’architettura del ’900 olandesi da una parte. E la nascita del calcio totale dall’altra. Un’impresa intellettuale tentata e riuscita con l’aiuto (anche e soprattutto) di Barry Hulshoff, che di quell’Ajax fu pilastro difensivo e verrebbe da dire teorico, se non fosse per una strana caratteristica che accomuna quasi tutti i giocatori che parlano di calcio: non voler apparire come persone eccessivamente portate alla teoria, anche se la cosa gli riesce particolarmente bene (e ovviamente non c’è nulla di male).

Chi ha inventato il calcio totale?

Però, per dire, Hulshoff era ostinatamente convinto che il calcio totale fosse un’invenzione non del loro allenatore Rinus Michels, ma dei giocatori. E poi, solo poi, «un sacco di altre persone ci ricamarono sopra delle teorie». Perché, per Hulshoff, la questione era semplice: «La gente non riusciva a capire che a volte agivamo in modo automatico. Viene dal fatto che giochiamo insieme da tempo. Il calcio migliore è quello istintivo, che viene dal cuore. Dopo ci puoi anche ragionare sopra; ma in campo giochi e basta. Ci siamo cresciuti dentro. Non ci rendevamo conto che la palla corresse così veloce, che stessimo cambiando posizione con una tale frequenza. Sapevamo esattamente cosa fare perché ci conoscevamo e giocavamo insieme da cinque anni. Eravamo in grado di adattarci e coprirci a vicenda in ogni situazione». Tanto è vero che Barry dava del calcio totale la definizione più semplice possibile: «Significa che un giocatore in attacco può giocare in difesa – banalmente che può farlo, tutto qui. Il processo comincia in modo semplice. Il difensore deve intanto ragionare in modo difensivo, ma anche saper ragionare in modo offensivo. Per un attaccante è l’opposto. Da qualche parte si incontrano».

Barry Hulshoff contro Pietro Anastasi (scomparso un mese prima del difensore olandese) in Ajax-Juventus, finale di Coppa dei Campioni 1973 (Ap)
Barry Hulshoff contro Pietro Anastasi (scomparso un mese prima del difensore olandese) in Ajax-Juventus, finale di Coppa dei Campioni 1973 (Ap)

Le discussioni con Cruyff

Eppure, era lui stesso a raccontare che con Cruyff discutevano «tutto il tempo di spazio». Johan «parlava sempre di dove far correre i giocatori, dove farli restare fermi, quando non si muovevano. Era tutta questione di creazione e occupazione dello spazio. Una sorta di architettura del campo da gioco. Il punto era il movimento, ma tutto partiva dallo spazio, dalla sua organizzazione. Deve esserti chiaro perché costruire un’azione dalla fascia sinistra o da quella destra comporti un tipo di movimento diverso rispetto a una costruzione dal centro. In difesa, se giochi contro tre punte, i due difensori centrali costruiranno l’azione. Se gli attaccanti sono due, allora l’azione si sviluppa dalle fasce, e così via». E se non era architettura, erano geometria o matematica. Come quando, in un bar vicino alla stazione di Breda (al confine tra Olanda e Belgio) Hulshoff spiegò come «due difensori dinamici e intelligenti possano neutralizzare quattro attaccanti semplicemente stando nel punto giusto e muovendosi con prontezza». E lo spiegò con dei disegni su una tovaglietta di carta: «Vedi? In questa posizione, puoi marcare questo giocatore...». Poi altre linee, frecce, cerchi: «In questa posizione hai un margine d’azione di novanta gradi. Se io invece mi metto qui, ho centottanta gradi. Matematica, pura e semplice matematica. E l’unica ragione per cui i giocatori non fanno così è che non ne sanno niente. Giocano tutti nella maniera sbagliata, nella maniera stupida. Per migliorare devono muoversi. Devono andare da questa parte, o da quest’altra. Devono correre un po’. Questo deve andare un po’ più vicino alla palla, l’altro un po’ più lontano. Ma si può fare con due difensori. Novanta gradi o centottanta. Semplice matematica. Nient’altro che matematica».

Contro l’Inter

Un disegno gli servì anche per spiegare com’era nato il primo gol dell’Ajax nella finale di Coppa dei Campioni del 1972, vinta 2-0 contro l’Inter: «Il passaggio che feci e che portò al primo gol fu frutto di uno sbaglio. Ho preso palla a centrocampo – Keizer era qui, Cruijff qui, Mühren là in fondo. Io stavo giusto per arrivare a centrocampo, e cosa faccio? Gioco la palla senza guardare a destra. Ho guardato a sinistra e ho passato a destra, dove pensavo ci fosse Arie Haan. Di norma, in una situazione simile, Arie Haan sarebbe stato lì. Ma non c’era. Né lui, né nessun altro». Il problema è che ci cascò anche la difesa dell’Inter. La palla finì a Swart. Sul cross, Bordon in uscita andò a sbattere su Burgnich, mentre il pallone finiva sui piedi di Cruyff, che segnò a porta vuota.

Contro il Milan

Erano passati solo 3 anni dalla sconfitta, sempre in finale, contro il Milan. Ma sembravano 30: «All’epoca avevamo una squadra molto giovane. Dicono che a volte si debba perdere una finale per vincerne una, ed è vero. Più avanti imparammo che se per noi non si metteva bene, potevamo cambiare nel corso della partita... cambiare tattica intendo. Contro il Milan non potevamo cambiare nulla. Erano troppo esperti. Fummo sopraffatti, su ogni fronte. Loro erano migliori»

I falli

Lo diventò anche Hulshoff, scegliendo una strada diversa da quella che gli chiedeva Rinus Michels: «Voleva che diventassi più duro, spietato, e che facessi fallo agli attaccanti se mi colpivano. Mi diceva di prendere l’avversario a calci, di metterlo fuori uso. Ma io non ne ero in grado e non lo facevo. Magari qualche trattenuta, ma non era abbastanza. Non era nel mio carattere». Che, invece, gli diceva di fare qualcos’altro: imparare ad anticipare, in un modo così efficace da non aver bisogno di fare fallo. Glielo diceva il carattere, ma anche la sua passione per quello sport: «Io giocavo a calcio e per il calcio facevo tutto. Non c’era spazio per altro». A parte la musica, la cui evoluzione in quegli anni era l’unica manifestazione intellettuale che Hulshoff riusciva a collegare con quanto il suo Ajax aveva fatto tra i 60 e i 70. A patto che fosse la «sua» musica, però: progressive rock e heavy metal: «Musica parecchio estrema, la mia. In squadra non piaceva a nessuno. Preferivano il pop tipo i Beatles». Scrive David Winner che solo a nominarli faceva una smorfia.

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