26 aprile 2018 - 21:25

Nel volume «Parola di Bob»
I sogni concreti di Robert Kennedy

Nei discorsi anticipava l’oggi. Come a San Francisco, 15 giorni prima di essere ucciso
Un libro, edito da In Dialogo, rilegge le parole del politico assassinato 50 anni fa

di VENANZIO POSTIGLIONE

Bob Kennedy (1925 - 1968) parla alla folla (Getty Images) Bob Kennedy (1925 - 1968) parla alla folla (Getty Images)
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Il sorriso da ragazzo. Il passo veloce, ci sono troppe mani da stringere. I saluti dalla decappottabile, in maniche di camicia, la cravatta stretta da laureato, un altro palco che aspetta. I discorsi messi giù in treno, tra due fermate, l’America che scorre dai finestrini. La citazione struggente di Eschilo dopo la morte di Martin Luther King, con «il dolore che cade goccia a goccia sul nostro cuore». Il tono profetico per sconfessare il Pil, che misura «napalm, missili e testate nucleari», ma «non comprende la salute delle famiglie o la bellezza della poesia». L’idea che ciascuno di noi può strattonare il mondo, visto che «un giovane generale estese il proprio impero dalla Macedonia fino alla fine delle terre conosciute».

«Parola di Bob. Le “profezie” di Robert F. Kennedy rilette e commentate dai protagonisti del nostro tempo» è curato da Mauro Colombo e Alberto Mattioli (con un contributo di Kerry Kennedy, prefazione di Marco Tarquinio, editore In Dialogo, pp. 184, euro 16). Nel libro esperti di campi diversi commentano i discorsi di Ken-nedy, ucciso a Los Angeles il 5 giugno 1968
«Parola di Bob. Le “profezie” di Robert F. Kennedy rilette e commentate dai protagonisti del nostro tempo» è curato da Mauro Colombo e Alberto Mattioli (con un contributo di Kerry Kennedy, prefazione di Marco Tarquinio, editore In Dialogo, pp. 184, euro 16). Nel libro esperti di campi diversi commentano i discorsi di Ken-nedy, ucciso a Los Angeles il 5 giugno 1968

Ci volevano le biblioteche, una volta. O gli archivi del giornali. Gli occhiali, le scale, a volte la polvere. Ora basta un clic su YouTube, «Robert Kennedy 1968», ci sono i suoi discorsi e c’è lui, con il ciuffo in ordine e un inglese pulito, cristallino, la parola più chiara e più evocativa, la semplicità per farsi capire, l’enfasi per farsi amare. Nell’anno (e nel mese) che hanno cambiato (veramente) il mondo, ecco Bob che parla a San Francisco: è il 21 maggio del ’68, uno degli ultimi comizi, a quindici giorni dall’assassinio. Mentre gli studenti di Parigi bruciano i boulevard, gli aerei americani incendiano il Vietnam, la musica ribolle abbracciando la protesta più dura e nelle strade dell’Occidente si percepisce una nuova epoca che prorompe dalle viscere della terra, come nel finale di Germinal di Zola.

Un discorso tra i più belli. I più intensi. Un discorso propriamente politico. Perché mai, forse, come a San Francisco, Robert Kennedy è il visionario pragmatico, il riformista idealista che si prepara a conquistare la Casa Bianca e a rimodellare l’agenda del pianeta. La concretezza e il sogno. Intrecciati. Al punto da superare anche le vecchie frontiere destra/sinistra, conservatori/progressisti, repubblicani/democratici con un’intuizione che a distanza di cinquant’anni chiamiamo spirito bipartisan. Dimenticando di rendere omaggio all’autore.

Ma val la pena seguire le frasi dall’inizio, tornando a quel 21 maggio. L’incipit è già una sentenza, è già la lettura storica di una stagione appena sbocciata: «È chiaro fin d’ora che il 1968 rimarrà come l’anno in cui è cominciata la nuova politica del prossimo decennio e oltre. È l’anno in cui la saggezza politica vigente si è dimostrata incapace di confrontarsi con l’agitazione dei nostri tempi, di ispirare i nostri giovani, di dare risposta ai problemi che dobbiamo affrontare come nazione. E pertanto questo è l’anno in cui la vecchia politica deve diventare una cosa del passato». Non a caso Robert Kennedy parla a 16 chilometri da Berkeley, dove il ’68 era nato nel ’64, con il Free speech movement che rompeva le regole dei campus e con lo studente Mario Savio, figlio di immigrati italiani, capace di accendere i primi sit-in: «Siamo esseri umani e non materie prime da trasformare in prodotti».

Kennedy sa che non sta parlando ai borghesi di New York, pronti a delegare, e neppure al Paese profondo, con le paure di allora (e di oggi). Ha di fronte un pezzo di meglio gioventù americana, un nucleo di ragazzi che inventeranno la Silicon Valley, un piccolo esercito che vuole contare e contarsi. Bob, allora, ci va dritto: «Qual è il futuro? Cosa è la nuova politica? Ecco: è la partecipazione del cittadino, il vostro coinvolgimento personale». Non solo. «Dobbiamo arrestare e invertire la crescente accumulazione di potere e autorità da parte del governo centrale a Washington e così riportare la capacità di decisione al popolo americano nelle sue comunità locali». Ci vorranno anni prima che le democrazie occidentali riescano a capire quell’antico messaggio, per poi accorgersi (forse tardi, forse no) che la partecipazione negata o trascurata porta ai populismi e che le autonomie cancellate o rimosse conducono fino alla Catalogna.

Come nello spirito del luogo, Kennedy dice che «il denaro non può comprare la dignità, il rispetto per se stessi e i sentimenti di fratellanza tra i cittadini». Così come disegna una nuova via «per tutti coloro che si trovano in una condizione di inutilità, invisibili, ignorati e indesiderati». Quasi la definizione ante litteram di quei forgotten men dimenticati dalle élite e sedotti dai fautori della Brexit e dalla demagogia di Donald Trump. Poi insiste. Ancora. Nella sua intuizione dell’anno di svolta, il Vietnam e Praga dietro l’angolo, i diritti civili a un passo, le piazze come un’unica piazza. Nel suo libro 1968 L’anno che ha fatto saltare il mondo, Mark Kurlansky scriverà che in quei giorni vide la luce «la nostra epoca postmoderna governata dai media». La prova generale del pianeta interconnesso. Senza distanze. Con una forza immensa (e un’immensa isteria).

Poi arriva la politica. E Kennedy, a sorpresa, rompe con le sirene del New Deal e la nostalgia di Roosevelt. «La soluzione non è un altro programma federale, un altro dipartimento o amministrazione, un’altra schiera di burocrati a Washington. La vera risposta, invece, è il pieno coinvolgimento delle imprese private nella creazione di posti di lavoro, nella formazione, nell’istruzione e nella sanità». Non più il pubblico che spende, spreca, pensa a tutto e tutti. «Per mezzo di un sistema flessibile e ampio di incentivi fiscali, potremmo e dovremmo incoraggiare l’impresa privata a dedicare le sue energie e risorse ai grandi doveri sociali». Un passaggio gigantesco. Ci stiamo lavorando, a strappi, ancora oggi. Le tasse come leva per indirizzare l’impegno delle aziende, il rifiuto del debito pubblico come unica strada per la dignità sociale. Tanto che lo stesso Bob, nel libro Vogliamo un mondo più nuovo, aveva citato Goethe («Il mortale luogo comune che ci incatena tutti») per scardinare i vecchi confini politici. Cambiare o sparire.

Di qui alla scomposizione dei due poli storici il passo è breve. Robert Kennedy non accetta la realtà di sempre, quasi ne fa la parodia: i liberal che vogliono solo spendere più soldi e i conservatori convinti che i problemi possano risolversi da soli. Lo Stato ovunque e lo Stato mai. Bob vorrebbe che i democratici sospingessero i privati, riconoscessero il primato della società, con le sue energie e i suoi talenti, e non delegassero tutto al solito bilancio federale. Così come vede il giorno in cui anche i conservatori possano riconoscere «l’urgente necessità di dare opportunità a tutti i cittadini». Un’alleanza in nome della «compassion», spezzando gli schemi e i preconcetti, cercando un terreno di incontro sui diritti collettivi. Sulle chance individuali. Sulle ingiustizie che non hanno colore. Un messaggio al «posterorum negotium», all’attività dei posteri, per usare una geniale espressione di Seneca. E la chiave, quasi l’assillo, vive di tre parole, «gettare un ponte». «Un ponte tra le generazioni è oggi essenziale al Paese perché, in realtà, è anche un ponte verso il nostro futuro e quindi, nel senso più vero, verso il significato ultimo della nostra vita».

Ucciso Martin Luther King, ucciso Robert Kennedy. Il ’68 che vuole bruciare e ricostruire il mondo distrugge anche i suoi uomini migliori. Cinquant’anni dopo siamo qui a cercare le tracce, a capire quali alberi sono cresciuti e quali promesse sono svanite per sempre. L’epoca della compassione immaginata da Bob a San Francisco è lì sospesa, non è arrivata e magari non è perduta. Come in quella frase, bellissima, del cardinal Martini: «Educare è come seminare. Il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto». Pazienza e speranza, di pari passo, in parallelo, aspettando l’incrocio del tempo. Quando Van Gogh dipinge il Seminatore, lo immagina al tramonto, con gli ultimi bagliori del sole calante. Sa che arriverà una lunga notte: poi l’alba. Forse i frutti.

Un incontro a Milano per raccontare Robert

È dedicata al pensiero e alle speranze di Bob Kennedy la tavola rotonda «Le sfide dell’ordine mondiale alla luce delle “profezie” di Bob Kennedy» in programma il 7 maggio a Milano (ore 9,30, Sala Alessi di Palazzo Marino, piazza della Scala 2). All’incontro — promosso in occasione dell’uscita del libro Parola di Bob dall’editore Itn/In Dialogo in collaborazione con Unione Cattolica della Stampa italiana-Lombardia, Associazione Robert F. Kennedy Human Rights-Italia e Presidenza del Consiglio comunale di Milano e moderato da Monica Forni — interverranno, con i curatori Alberto Mattioli e Mauro Colombo, Livia Pomodoro, Nando dalla Chiesa, Piero Bassetti, Marco Tarquinio e Venanzio Postiglione, vicedirettore del «Corriere della Sera», autore di uno dei contributi contenuti nel libro che anticipiamo in questa pagina. È stata invitata a portare il suo saluto Kerry Kennedy, figlia di Bob.

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