15 marzo 2019 - 23:27

Gli ultimi giorni di Imane Fadil e il suo libro incompiuto: «Discendo da un santo, ecco la mia verità»

La ragazza morta dopo un ricovero di diverse settimane era stata una teste chiave nei processi sul caso Ruby. E non voleva essere chiamata «Olgettina»

di Giuseppe Guastella

Gli ultimi giorni di Imane Fadil e il suo libro incompiuto: «Discendo da un santo, ecco la mia verità»
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MILANO — Se qualcuno si azzardava a chiamarla «Olgettina», Imane Fadil diventava una furia. «Io non sono come quelle, non c’entro niente con il bunga bunga» diceva, lei che al processo Ruby aveva dichiarato di aver dato consigli a Silvio Berlusconi su come ricevere Gheddafi in Italia quando il Cavaliere era presidente del Consiglio e su come gestire la squadra del Milan. Imane Fadil, la marocchina dallo sguardo dolce che nascondeva dietro una apparente corazza di aggressività, diceva sempre che ad Arcore c’era andata perché voleva dimostrare a Silvio Berlusconi di essere in grado di fare la giornalista sportiva televisiva, e non certo per ballare al palo della lap dance nei dopocena ai quali, invece, non mancavano quelle che in via Olgettina avevano la casa pagata da lui. Da quando era stata coinvolta mediaticamente nei vari processi Ruby, la 34 enne Imane non aveva più lavorato né come modella e men che meno come giornalista. «Per ciò che succedeva ad Arcore, noi abbiamo pagato più di tutte le altre, quelle che hanno deciso di farsi corrompere», disse in un’intervista accomunando la sua condizione a quelle delle altre due ragazze, Chiara Danese e Ambra Battilana, che come lei si costituirono parti civili.

Si vedeva il futuro bloccato, per questo voleva essere risarcita dagli imputati, a partire principalmente da Silvio Berlusconi. Quando venne in Aula nel 2012, raccontò ciò che aveva visto ad Arcore precisando di non essere stata mai toccata da nessuno. Testimoniò anche su un episodio inquietante della primavera 2011 quando, disse, uno sconosciuto le consegnò un telefonino «non intercettabile» dicendole che l’avrebbe chiamata per un viaggio in taxi «facendomi capire che dovevo andare ad Arcore». Si incontrarono altre due volte, ma lei quel viaggio non lo fece e per questo fu anche avvertita: «Se dici qualcosa sono fatti tuoi».

Negli ultimi tempi la vita della donna aveva preso una piega diversa da quella dei lustrini delle ragazze immagine e dei sogni televisivi. Esauriti i primi soldi che aveva ricevuto come provvisionale dopo le sentenze, qualche decina di migliaia di euro, Imane Fadil attraversava un periodo molto difficile dal punto di vista economico. Era davvero in grosse difficoltà, ma non ha mai abbandonato la dignità e quella cocciuta determinazione per la quale spesso le dicevano: «Ma chi te lo fa fare? Prendi i soldi e molla tutto». Invece denunciava tentativi di corruzione. Neppure nei momenti più duri ha avuto a che fare con le droghe, come confermano gli esami tossicologici eseguiti nella clinica Humanitas prima che morisse avvelenata non si sa come in un letto della Rianimazione.

Lei no, aveva deciso di andare fino in fondo ostinata in un qualcosa che per lei si era di più di una battaglia legale. Aveva in sé un nonché di mistico che negli ultimi tempi le faceva dire che la sua famiglia, cristiana, discendeva da un santo marocchino, e che lei era intoccabile grazie alla sua fede, di essere in grado di vedere il male negli occhi degli altri e la presenza del demonio intono a sé e intorno alle persone che le capitava di incontrare. Perfino nelle fotografie diceva di poter individuare la presenza del maligno. Anche questo aveva scritto nella bozza di un libro di cui ogni tanto parlava e al quale, diceva, stava lavorando alacremente. «Prima o poi tutti lo vedranno, prima o poi sarà pubblicato. Ho fiducia nella giustizia italiana e ho fiducia nel fatto che le cose stiano cambiando», diceva. Ma in quelle pagine, come ha dichiarato il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, gli investigatori non hanno «nulla di rilevante».

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