Perché Squid Game
è il gioco del nostro tempo

risponde Aldo Cazzullo

shadow

Caro Aldo,
le immagini violente che la televisione ci propone, sono ormai all’ordine del giorno. Non bastavano le nostrane «Gomorra» e «Suburra», ci voleva «La casa di carta» (le ultime tanto attese puntate si sono rivelate una vera sanguinosa sequenza di immagini di guerra), l’attualissima Squid Game che a tratti blocca la digestione per l’abbondanza di sangue, ecc. È triste prendere atto che tra gli scrittori di sceneggiature, a livello globale, ci sia una povertà di idee, un appiattimento culturale che va di pari passo con quello sociale… e per collegarci al primo punto, linguistico. Che ne è dei tempi di «L’attimo fuggente»?
Tiziana Camera

Cara Tiziana,
Molti lettori sono rimasti turbati, come lei, dal successo di Squid Game. Massimo Gramellini sul Corriere è stato il primo a raccontare l’effetto emulazione che il «gioco del calamaro» sta avendo sui ragazzi. Ovviamente nessuno si sogna di uccidere gli sconfitti a «Un due tre stella», come accade nella serie Netflix; ma il fascino sinistro di trasformare un passatempo infantile in una competizione cruenta è di per sé inquietante. In sintesi: Squid Game — ambientato in Corea e di successo planetario — racconta le disavventure di un gruppo di poveri, oppressi dai debiti, che si affrontano tra loro per denaro e (almeno così si intuisce dalle prime due puntate) per il divertimento di qualche anonimo riccone. È insomma una via di mezzo tra Parasite, il geniale film da Oscar che racconta la vita dei bassifondi di Seul (l’unica città al mondo in cui non tornerei), e Hunger Games, la saga dei ragazzi costretti a uccidersi tra loro. Tecnicamente, la serie è fatta molto bene. Se serve a esorcizzare la violenza, se è una forma di catarsi, risponde alla funzione che il teatro e lo spettacolo esercitano da millenni. Quanto ai ragazzini, da sempre trovano un pretesto per fare la lotta, com’è forse connaturato all’esuberanza dell’età (purché non si trascenda). Resta un motivo di amarezza: l’idea che gli uomini nascano liberi e uguali è recentissima nella storia umana. Si affaccia con la Rivoluzione francese, viene imposta o contestata a colpi di massacri. In Italia poi è ancora più recente. Un generale aristocratico della Grande Guerra non era minimamente sfiorato dall’idea che la vita dei contadini analfabeti che mandava contro i reticolati austriaci valesse quanto la sua. Il fascismo poi si fonda sulla disuguaglianza tra gli uomini; e il comunismo ha tentato di imporre l’uguaglianza con gulag e polizia politica, creando una casta di burocrati «più uguali degli altri». Ma nessuna fase della storia umana ha visto disuguaglianze più brutali di questa; in cui neppure il fisco riesce a fare da livella. Un miliardario americano, o sudcoreano, è più ricco di dieci milioni di lavoratori. La cui vita, appunto, non vale molto più di nulla. Per questo Squid Game, con la sua brutale esagerazione, è il «gioco» della nostra epoca.

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«Quelle parole di Norberto Bobbio sul 25 aprile»

Caro Aldo, premesso che le colpe del nonno non devono ricadere sulla nipote, a Rachele Mussolini, che il 25 aprile festeggia solo San Marco e che alla domanda cosa pensa del fascismo risponde che è un argomento che richiede troppo tempo per essere affrontato, chiedo di commentare, attraverso le pagine del Corriere, quello che disse il filosofo, giurista e politologo Norberto Bobbio in un discorso rivolto ai cittadini torinesi, agli uomini e alle donne della Resistenza il 25 aprile 1957: «Un’esplosione di gioia (il giorno della Liberazione) si diffuse rapidamente in tutte le piazze, in tutte le vie, in tutte le case: (...) Ci si guardava di nuovo negli occhi e si sorrideva. Tanto prima il volto di un ignoto passante ci pareva ostile, altrettanto ora ci pareva un amico a cui avremmo volentieri confidato il nostro animo. Ci si abbracciava per via. Si sventolavano fazzoletti e bandiere. Le strade, nonostante che gli ultimi cecchini sparassero dai tetti, si rianimavano. Non avevamo più segreti da nascondere. E si poteva ricominciare a sperare. Eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi. Quel giorno, o amici, abbiamo vissuto una tra le esperienze più belle che all’uomo sia dato di provare: il miracolo della libertà. Sono stati giorni felici; e nonostante i lutti, i pericoli corsi, i morti attorno a noi e dietro di noi, furono tra i giorni più felici della nostra vita».
Lorenzo Catania

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