13 marzo 2021 - 20:12

Kyal Sin, un «Angel» per la Birmania

La ragazza simbolo della rivolta perseguitata anche da morta. Solo ieri altre sei vittime

di Paolo Salom

Kyal Sin, un «Angel» per la Birmania
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L’hanno presa di mira, una volta, perché era una leader e dava coraggio ai suoi compagni. Un colpo solo, alla nuca, e la vita di Ma Kyal Sin, 19 anni, si è dissolta. Ma la ragazza che protestava contro il colpo di Stato in Myanmar, l’ex Birmania, con una maglietta che diceva «andrà tutto bene» — per tutti Angel, un angelo di bontà e altruismo — era diventata un simbolo così potente che le autorità di Mandalay, seconda città del Paese, hanno deciso di prenderla di mira una seconda volta: da morta.

La notte dopo il funerale, al buio e di nascosto, un gruppo di uomini armati, in spregio a ogni decenza e senso di rispetto, ha devastato l’altare di fiori e candele appena costruito sul luogo di sepoltura. Poi hanno esumato il corpo per portarlo via. Al mattino la tomba non esisteva più, al suo posto una colata di cemento e l’implicito messaggio: «Vi perseguiteremo anche dopo avervi uccisi».

Ecco il Myanmar un mese e mezzo dopo il colpo di Stato del 1° febbraio. Sei settimane per tornare all’inferno. Un’intera classe dirigente arrestata, a partire da Aung San Suu Kyi. La democrazia archiviata come un sogno durato lo spazio di una notte. E di nuovo morti, tanti morti: almeno ottanta manifestanti sono stati presi di mira dai fucili di Tatmadaw, l’esercito, almeno sei nella giornata di ieri. La maggior parte di loro colpita alla testa, dunque non per caso. Duemila arrestati e scomparsi nel gorgo concentrazionario di cui i generali evidentemente sentivano la nostalgia dopo dieci anni di «fastidioso» rispetto delle leggi.

E, nella battaglia scatenata contro il proprio popolo disarmato e disarmante nella sua quotidiana e pacifica richiesta di libertà, un’icona potente quanto e più delle armi che l’hanno stroncata. Angel, che oggi continua a comparire sui muri, prima che qualche solerte poliziotto ne cancelli le forme con vernice nera; e sui poster, che i compagni portano in giro per le strade per farsi coraggio e affrontare le scariche di proiettili. «Fino a un attimo prima di accasciarsi — ha raccontato alla Cnn Min Htet Oo, un amico che era con lei il 3 marzo, il giorno maledetto — Angel aveva guidato le azioni di tutti. Sapeva che era pericoloso, era l’unica ragazza in prima linea. Aveva coraggio, tanto. Ma non era una scriteriata. Diceva a tutti di stare bassi, per non rischiare inutilmente la vita». Le immagini degli attimi prima della tragedia mostrano la giovane semi sdraiata, il volto rivolto verso i compagni e non verso i soldati. È stato allora che un proiettile ha attraversato il viale con un sibilo raggelante. Lei non ha detto una parola. Ha smesso di muoversi e di respirare mentre gli amici la trasportavano a braccia in un ospedale di fortuna. Inutilmente: «Quando è arrivata qui non c’era più nulla da fare: il colpo di fucile le aveva devastato il cervello», ha raccontato un medico. Restava solo da farle un funerale degno della sua generosità. Ma nessuno poteva immaginare l’incubo che sarebbe seguito, la profanazione della tomba con la scusa ufficiale «di eseguire un’autopsia per verificare le circostanze della morte», come ha poi spiegato un ufficiale di polizia. A che scopo? «Il colpo che ha ucciso la ragazza non è del tipo in uso alle nostre forze, è chiaramente un tentativo di infiammare la situazione». Come se ce ne fosse bisogno.

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