Mezzogiorno, 17 novembre 2021 - 22:08

Addio a Jimmie Durham, il Cherokee dell’Arkansas viveva a Porta Capuana

A 81 anni si è spento a Berlino. Aveva scelto l’effervescenza di Napoli

di Natascia Festa

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Aveva scelto Porta Capuana, l’ex Lanificio borbonico tra bellezza e «sgarrupo», per vivere a pieno gli ultimi anni della sua vita. Lui che era nato in Arkansas nel 1940 e aveva casa e studio nella rigorosa Berlino aveva voluto mettere radici nel caos convinto davvero generi stelle. Jimmie Durham, artista, performer, saggista e poeta, considerato tra i nomi più influenti dell’arte contemporanea, è morto oggi a Berlino. A Napoli con sua moglie, l’artista Maria Thereza Alves, aveva comprato un pezzo di ex Lanificio affidandone la reinvenzione all’amico Antonio Giuseppe Martiniello e insieme lo hanno trasformato in una centrale d’arte contemporanea.

Lì ha vissuto appartato e amatissimo, epicentro di un’attenzione critica che gli ha sempre riconosciuto un ruolo esclusivo. Quello di maestro rivoluzionario della scultura e attivista per i diritti civili. A Palazzo Reale Napoli gli dedicò una personale nella sala Dorica. Si definiva Cherokee e lo era nell’anima, al di là della mancata appartenenza ufficiale alle tribù. Negli anni ‘60 e ‘70 del Novecento si era impegnato per i diritti civili degli afroamericani e dei nativi americani. Ha ricevuto nel 2017 del Premio Robert Rauschenberg. Nel 2019 il Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale d’Arte di Venezia. Una parte importante di lui resta a Porta Capuana, è un genius loci d’adozione.

«Nella mia vita vera sono un poeta», diceva. E in effetti tutto nell'arte poliedrica del grande performer americano morto oggi a Berlino, dalle rivoluzionarie costruzioni scultoree che lo hanno reso famoso fino alle battaglie per i diritti civili, è permeato di una profonda poesia. Nel 1985, raccontava in una intervista a Domus nel 2019, l'anno in cui la Biennale di Venezia gli rese omaggio con il Leone d'Oro alla carriera, l'American Poetry Society aveva premiato con 5 mila dollari il suo Columbus Day (1985, West End Press, Albuquerque), per lui, dopo tanti anni e tanti riconoscimenti restava quello il traguardo più importante. «Intanto perché sono stato riconosciuto come poeta», spiegava. «E poi per il denaro, che ci ha permesso di stare tranquilli».

Eppure, in oltre sessant'anni di carriera vissuta a cavallo tra i due continenti, Durham ha sperimentato tutti i linguaggi dell'arte, lavorando alla decostruzione di concetti e stereotipi tipici della cultura occidentale, servendosi di pittura, scultura, performance, disegno, scultura, video. «Un intellettuale completo», ricorda oggi Pierpaolo Forte che lo conobbe al Museo Madre di Napoli di cui era presidente, «un uomo che parlava con la materia, si metteva in ascolto con un animismo istintivo e fedele», una figura «irrinunciabile».

Cresciuto tra Texas, Louisiana e Oklahoma, mentre suo padre viaggiava in cerca di lavoro, aveva cominciato a farsi strada nel mondo dell'arte negli anni '60 con il teatro, lo spettacolo, la letteratura. Le prime mostre ad Austin nel 1965 prima di trasferirsi in Svizzera per studiare alla Ecole des Beaux-Arts. Poi il rientro negli Usa, dove lavorò per l'American Indian Movement, dedicandosi con passione ai diritti civili dei nativi americani. Negli anni '80 a New York riprende l'attività artistica concentrandosi soprattutto sulle arti visive, senza mai lasciare la poesia. E ancora il Messico e l'Europa, dove arriva nel '94 e dove si ferma a vivere con Maria Thereza Alves, compagna nell'arte e nella vita, dividendo il suo tempo tra le due case di Berlino e Napoli.

Tantissime in tutto il mondo le mostre dei suoi lavori, dalla Whitney Biennial a Documenta IX di Kassel, dall'Institute of Contemporary Arts di Londra al Museo d'Arte Moderna di Anversa, al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles, al Kunstverein di Amburgo e Monaco, al FRAC di Reims, alla Fondazione Serralves di Porto, il MAXXI di Roma, il MADRE di Napoli, alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, oltre che alla Biennale di Venezia e alla Biennale di Gwangju. Nel 2017 la retrospettiva Jimmie Durham: At the Center of the World, curata da Anne Ellegood, ha aperto all'Hammer Museum di Los Angeles e ha viaggiato al Walker Art Center di Minneapolis, al Whitney Museum of American Art di New York City e al Remai Moderno a Saskatoon.

E se la Biennale oggi lo ricorda «con affetto e ammirazione», dal Madre, che nel 2017 lo ha insignito del Matronato alla carriera, arriva il ricordo della presidente della Fondazione Donnaregina Angela Tecce con la direttrice artistica Kathryn Weir e tutto lo staff che sottolineano la «profonda relazione» istaurata con il museo, ma anche con tutto il quartiere. Ammalato da tempo, Durham ha lavorato senza soste fino all'ultimo istante: «Rifiutava sprezzantemente la sua età e continuava a vivere senza prudenza», raccontano Forte e i numerosi amici partenopei che per il saluto raggiungeranno Berlino.

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