10 marzo 2018 - 14:34

Morto Piero Ostellino
Guidò il «Corriere» dal 1984 al 1987

Convinto liberale e garantista, aveva fondato il Centro Einaudi di Torino ed era stato corrispondente da Mosca e da Pechino. Contrastò sempre lo statalismo dirigista

di ANTONIO CARIOTI

Piero Ostellino (1935-2018), direttore del «Corriere» dal 1984 al 1987 (Imagoeconomica) Piero Ostellino (1935-2018), direttore del «Corriere» dal 1984 al 1987 (Imagoeconomica)
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Era una personalità forte Piero Ostellino, scomparso all’età di 82 anni: giornalista e uomo di cultura, direttore del «Corriere della Sera» tra il giugno 1984 e il febbraio 1987, si distingueva per spirito polemico tra i più appassionati sostenitori del pensiero liberale. Il suo punto di riferimento filosofico era la scuola illuminista scozzese, autori insigni come John Locke, David Hume, Adam Smith, di cui apprezzava la fede nell’individuo e la consapevolezza profonda dell’imperfezione umana. Diffidava invece dell’Illuminismo francese , specie della mentalità «geometrica» che aveva prodotto l’intransigenza giacobina e il Terrore rivoluzionario.

Nato a Venezia il 9 ottobre 1935, Ostellino si era laureato in Scienze politiche all’Università di Torino. Nella città piemontese, all’inizio degli anni Sessanta, nemmeno trentenne era stato tra i fondatori del prestigioso Centro di ricerca Luigi Einaudi e della rivista ad esso collegata, «Biblioteca della Libertà». Due importanti oasi di studio, ricerca e riflessione a presidio dei valori occidentali, che proprio in quel periodo vivevano in Italia una fase di eclissi, accentuata in seguito dall’effetto delle agitazioni studentesche e operaie nel biennio 1968-69.

Penna colta e spesso acuminata, Ostellino aveva intrapreso la carriera giornalistica molto giovane ed era approdato al «Corriere della Sera» nel 1967. Ben presto aveva fatto valere le sue doti e nel 1973 era diventato corrispondente da Mosca, in piena epoca brežneviana. Mai tentato da indulgenze verso l’ideologia comunista o il sistema sovietico, si era tuttavia accostato a quella realtà con spirito laico, cercando di individuare i meccanismi concreti che muovevano la società dell’Urss e regolavano la vita dei suoi cittadini, senza lasciarsi guidare dai pregiudizi né tanto meno influenzare dalla propaganda del regime. Ne era scaturito anche un libro di notevole successo, Vivere in Russia (Rizzoli, 1977).

Dopo l’Urss era venuta nel 1979 la Cina del dopo Mao, avviata verso le riforme radicali promosse da Deng Xiaoping, che Ostellino aveva seguito in presa diretta a Pechino con attenzione e curiosità. Anche da quell’esperienza aveva tratto un saggio, Vivere in Cina (Rizzoli, 1981). Quindi era tornato sul mondo sovietico, all’epoca in piena stagnazione pregorbacioviana, con il volume In che cosa credono i russi? (Longanesi, 1982).

Terminata l’esperienza di corrispondente dall’estero, nel 1984 Ostellino era giunto alla guida del quotidiano di via Solferino e vi era rimasto per quattro anni, in una fase di ripresa del nostro Paese, dopo le difficoltà economiche e il sangue versato nel decennio precedente, ma nella quale già si intravedevano i sintomi della crisi che in seguito avrebbe determinato la disgregazione degli equilibri politici tradizionali. Crisi di cui il direttore del «Corriere della Sera» aveva colto le avvisaglie, convinto com’era che senza una rivoluzione liberale, fondata sulla competizione aperta in ogni settore, l’Italia corresse rischi molto seri.

Quando poi la partitocrazia si era inabissata con l’inchiesta Mani pulite, Ostellino, non più direttore ma sempre commentatore autorevole del «Corriere», aveva osservato con preoccupazione il fallimento di ogni tentativo riformatore. Attraverso la sua rubrica settimanale «Il dubbio» registrava regolarmente, a volte con sarcasmo, l’incoerenza di forze e di leader che evocavano i valori liberali, ma si dimostravano, a destra come a sinistra, del tutto incapaci di praticarli.

Lo angustiava soprattutto la permanenza di una logica dirigista e corporativa, assistenzialista e autoritaria, che vedeva come piombo nelle ali dell’Italia. Prendeva di mira con assiduità anche gli eccessi del giustizialismo, le frequenti intromissioni in campo politico di certa magistratura: gli appariva un grave pericolo compromettere le garanzie processuali in nome di un’esigenza di moralizzazione della vita pubblica. A tal proposito, da appassionato juventino, ovviamente non aveva gradito per nulla Calciopoli. Oltre che per i bianconeri, faceva il tifo per il cittadino spremuto e angariato, tanto che non esitò a intitolare Lo Stato canaglia un libro di denuncia edito da Rizzoli nel 2009.

Anche dopo aver lasciato il «Corriere» per «il Giornale», nel 2015, Ostellino continuava a sognare un’Italia liberale che assomigliasse di più alle democrazie anglosassoni, davvero rispettosa dei diritti individuali. Purtroppo non ha potuto vederla.

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