23 luglio 2020 - 09:24

Dino De Poli, addio all’Uomo-Fondazione che ha cambiato volto a Treviso

È morto l’ex presidente della Fondazione Cassamarca. Aveva 90 anni. In passato era stato parlamentare della Dc

di Alessandro Zuin

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TREVISO Al cronista che, con tutto il garbo del caso, gli riportava le critiche circolanti in città sull’effettiva utilità di certi interventi urbanistici che ne stavano stravolgendo l’aspetto, finanziati con larghezza di mezzi dal «tesoro» di Fondazione Cassamarca, un giorno diede questa fulminante risposta: «I cani abbaiano e le carrozze passano». Perché Dino De Poli, morto nella sua Treviso alla veneranda età di 90 anni suonati, era così: un po’ despota e un po’ elitario, sebbene fosse cresciuto alla fiorente scuola politica del cattolicesimo popolare – la Democrazia Cristiana «di sinistra», come si diceva all’epoca – e in fondo incredulo di quella che a lui doveva suonare come l’ingratitudine di molti concittadini verso quei progetti visionari e verso l’uomo che li incarnava. Perché De Poli, è un fatto oggettivo, Treviso l’ha cambiata nel profondo, più di un Piano regolatore o del Piano Casa di Berlusconi. O l’ha stravolta, secondo l’opinione di molti, soprattutto attraverso l’idea di realizzare un secondo centro fuori dal centro (la cosiddetta Cittadella delle istituzioni, costruita oltre la cortina delle mura cittadine), esportandovi tutte le funzioni pubbliche e private più significative, a eccezione del municipio.

Dino De Poli è morto all’età di 90 anni (archivio)
Dino De Poli è morto all’età di 90 anni (archivio)

Gli interventi della Fondazione

Tra gli Ottanta e i Novanta del secolo scorso, in particolare, De Poli ha contato e inciso su Treviso più di qualunque sindaco democraticamente eletto, anche quando quel sindaco era il popolarissimo e tutt’altro che arrendevole Giancarlo Gentilini, con il quale, infatti, furono strepiti e scintille. Contava e incideva, De Poli, anche e soprattutto perché, a differenza dei pubblici amministratori, agiva da soggetto privato, libero dagli eterni vincoli burocratici e dalle estenuanti gare d’appalto. Per di più godeva, da presidente quasi a vita della Fondazione Cassamarca, di una dotazione finanziaria – non di sua proprietà, come gli rimproveravano ad ogni occasione i detrattori - impensabile per qualsiasi ente pubblico e che, all’epoca, sembrava destinata a essere inesauribile, grazie al tesoretto iniziale e ai copiosi dividendi garantiti per lungo tempo da Unicredit. Il tempo si è incaricato di dimostrare che così non era. Non a caso, il declino del Signore di Ca’ Spineda (la storica sede di Cassamarca nel cuore medievale di Treviso) è coinciso, oltre che con l’inevitabile avanzare dell’età, anche con il prosciugamento dei flussi finanziari verso la Fondazione, il cui conto economico negli ultimi anni è finito miseramente in rosso.

«Hic manebimus optime»

«Hic manebimus optime» (qui staremo benissimo), era un’altra delle sue massime preferite, da opporre alle critiche che gli piovevano da più parti e a chi gli chiedeva di fare un passo indietro. Accompagnata da citazioni del tipo «Si fa la stessa fatica a pensare in grande e a pensare in piccolo». Il suo «pensiero grande» si è concretizzato in numerose realizzazioni, materiali e immateriali, che difficilmente Treviso avrebbe visto altrimenti: un intero quartiere sul Sile sventrato e trasformato a tempo di record nella sede dell’università cittadina (affiliata a Padova e a Venezia Ca’ Foscari), la rinascita dei teatri Eden e Comunale, le grandi mostre firmate Goldin che portarono a Treviso centinaia di migliaia di visitatori, fino alla già citata Cittadella delle istituzioni all’Appiani, firmata da un archistar (Mario Botta) nell’occasione non particolarmente ispirato e costata qualcosa come 250 milioni di euro. De Poli si vedeva come interprete di un nuovo «umanesimo latino», al punto da voler dare proprio questo nome a uno dei palazzi storici restaurati dalla Fondazione nel quartiere universitario. Di più: aveva teorizzato e messo in pratica l’urgenza che Treviso si dotasse della facoltà di Giurisprudenza (graziosamente concessa da Padova come sede staccata), poiché aveva maturato la profonda convinzione, lui che era avvocato prima di essere uomo pubblico, che fosse quello il corso di studi per eccellenza a cui abbeverare le nuove classi dirigenti di una città e del suo territorio. Anche in questo, era irrimediabilmente un uomo del Novecento.

La sinistra Dc

Per paradosso, sul piano politico De Poli non stava dalla parte di quelli che tenevano il bastone del comando. Era stato assessore comunale e poi parlamentare per una legislatura (eletto nell’anno più turbolento e simbolico dell’epoca, il 1968) ma nella Dc di quegli anni, dove si andava affermando il potere della corrente dorotea, lui militava nelle sinistra di base, in Veneto netta minoranza. Infatti, a Treviso si narrava che la presidenza della Cassa di Risparmio della Marca Trevigiana, a cui era arrivato nel 1987, fosse il classico incarico di consolazione riservato a chi non poteva più ambire a ruoli di primo piano. Alla faccia della consolazione: con la separazione tra banche e fondazioni imposta dalla riforma Amato e la nascita di Fondazione Cassamarca (anno 1992), dotata in culla dello strabiliante patrimonio iniziale di duemila miliardi di vecchie lire, De Poli poneva le basi per un regno durato ininterrottamente per 26 anni, fino all’uscita di scena, piuttosto malinconica, avvenuta alla fine del 2018. L’ultimo simbolo del suo potere terreno, la mitica Jaguar Daimler nera del 1993 dalla targa inconfondibile – TV A000000 -, che De Poli utilizzava come auto di rappresentanza per incontrare imprenditori, ministri e altolocati vari, ha cambiato padrone appena pochi mesi fa. L’ha acquistata all’asta, al prezzo vile di un’utilitaria, un avvocato tedesco, che la utilizzerà per portare all’asilo la sua bambina Philippa. Da Hic manebimus optime a Sic transit gloria mundi.

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