Mezzogiorno, 19 aprile 2018 - 08:51

“Messina Denaro vicino a Padre Pio”. Così la cosca idolatra il capomafia latitante: 22 arresti nel Trapanese

Blitz svela la rete dei «pizzini» e la scelta del boss: fratelli e cognati ai vertici del clan. Conversazione choc sul piccolo Di Matteo: «Bimbo sciolto nell’acido? Riina fece bene»

di Chiara Marasca

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«Vedi, una statua gli devono fare... una statua... una statua allo zio Ciccio che vale. Padre Pio ci devono mettere allo zio Ciccio e a quello accanto... Quelli sono i Santi». È così che gli affiliati vedono il padrino Matteo Messina Denaro, come Padre Pio. Nel marzo scorso, alcuni degli uomini fermati stamani nel blitz interforze che ha portato all’arresto di 22 persone nel Trapanese, non sapendo di essere intercettati, paragonavano il capomafia latitante e il padre Francesco, morto nel 1998, al Santo di Pietrelcina. Con gli arresti di oggi, eseguiti da polizia, carabinieri e Direzione investigativa antimafia, si stringe il cerchio intorno a Matteo Messina Denaro. In cella, infatti, sono finiti 22 presunti affiliati alle famiglie mafiose di Castelvetrano, Campobello di Mazara e Partanna, nel Trapanese, un colpo inferto alla rete relazionale, criminale ed economica del super latitante. Le accuse nei confronti degli indagati sono, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, danneggiamento, detenzione di armi e intestazione fittizia di beni. Tutti reati aggravati dalle modalità mafiose.

La rete dei «pizzini»

Messina Denaro ora è più debole perché l’indagine che ha portato al blitz ha consentito di individuare la rete utilizzata dal capo di Cosa nostra per lo smistamento dei “pizzini” con i quali dava le disposizioni agli affiliati. Pedinamenti, appostamenti e intercettazioni hanno ribadito come Cosa nostra eserciti un controllo capillare del territorio e ricorra sistematicamente alle intimidazioni per infiltrare il tessuto economico e sociale.

La scelta «familistica»

La struttura tradizionale dell’organizzazione, in Cosa Nostra, non si lascia corrompere dai tempi che cambiano: la cosca di Messina Denaro mette ancora al centro la famiglia. Il legame di sangue guida il boss latitante nella scelta degli uomini a cui affidare affari e gestione delle attività illecite, facendo coincidere il vincolo mafioso con quello familiare. Al vertice delle cosche il cognato del capomafia Filippo Guttadauro, poi il fratello Salvatore Messina Denaro, quindi il cognato Vincenzo Panicola e il cugino Giovanni Filardo. E ancora il cugino acquisito Lorenzo Cimarosa, poi pentitosi, la sorella Patrizia Messina Denaro, i nipoti Francesco Guttadauro e Luca Bellomo. Si conferma dunque a scelta «familistica» del boss ed emerge il ruolo di protagonista in tutte le dinamiche mafiose sul territorio di due cognati del latitante che sono tra i fermati.

«Bimbo sciolto nell’acido? Riina fece bene»

Dalle intercettazioni dell’operazione «Anno Zero» emerge anche una conversazione choc tra gli affiliati sulla morte del piccolo Giuseppe Di Matteo. «Allora ha sciolto a quello nell’acido, non ha fatto bene? Ha fatto bene». Così parla, il 19 novembre del 2017, non sapendo di essere intercettato, uno dei mafiosi fermati nel blitz di oggi . Il drammatico riferimento è alla vicenda del figlio del pentito Santino, rapito, tenuto sotto sequestro per 779 giorni, ucciso e sciolto nell’acido per indurre il padre a ritrattare. «Se la stirpe è quella... suo padre perché ha cantato?», conviene l’interlocutore. Il mafioso rincara la dose, esaltando la decisione di Riina di eliminare il bambino di soli 13 anni come giusta ritorsione rispetto al pentimento del padre, colpevole di avere danneggiato Cosa nostra. «Ha rovinato mezza Palermo quello... allora perfetto». «Il bambino è giusto che non si tocca», aggiunge l’altro - però aspetta un minuto ... perché se no a due giorni lo poteva sciogliere ... settecento giorni sono due anni ... tu perché non ritrattavi tutte cose? Se tenevi a tuo figlio, allora sei tu che non ci tenevi». «Giusto! perfetto!...e allora ... fuori dai coglioni», gli fa eco l’amico.

La guerra tra i clan trapanesi

L’inchiesta ha svelato che stava per scoppiare una nuova guerra di mafia tra i clan trapanesi. Il 6 luglio 2017 è stato ucciso Giuseppe Marcianò, genero del boss di Mazara del Vallo, Pino Burzotta ed esponente della «famiglia» di Campobello di Mazara. Il contesto in cui è maturato il delitto ricostruito dagli inquirenti ha svelato una guerra in corso tra famiglia di Campobello di Mazara e quella di Castelvetrano. «A partire dal 2015, - si legge nel provvedimento della Dda - si registra un lento progetto di espansione territoriale da parte della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, che ha riguardato anche il territorio di Castelvetrano, divenuto `vulnerabile´ a causa, per un verso, della mancanza su quel territorio di soggetti mafiosi di rango in libertà, e, per altro, dalla scelta di Messina Denaro che, nonostante gli arresti dei suoi uomini di fiducia e dei suoi più stretti familiari, non ha autorizzato omicidi e azioni violente, come invece auspicato da buona parte del popolo mafioso di quei territori». Proprio Marciano' si era molto lamentato del comportamento del latitante. «Da tale pericolosissimo contesto (certamente idoneo, come la tragica storia di Cosa nostra insegna, a scatenare reazioni cruente contrapposte, e quindi dare il via ad una lunga scia di sangue) - scrivono i pm - in uno col pericolo di fuga manifestato da alcuni indagati, si è imposta la necessità dell'adozione del fermo».

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