24 febbraio 2018 - 17:53

Getulio Alviani, l’arte dice addio
all’artigiano della matematica

Friulano, di fama internazionale, fu amico di Arp, Gropius e Lucio Fontana
Fino all’ultimo ha lavorato alla fondazione a suo nome che nascerà a Milano

di GIANLUIGI COLIN

L’artista Getulio Alviani (1939-2018), autore della copertina de «la Lettura» #107 dell’8 dicembre 2013 L’artista Getulio Alviani (1939-2018), autore della copertina de «la Lettura» #107 dell’8 dicembre 2013
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Aveva portato la luce nell’arte con la semplicità di una lastra di alluminio levigata: Getulio Alviani se n’è andato il 24 febbraio a Milano, a 78 anni, dopo malattia che da tempo lo stava tormentando con dure sofferenze. «Voglio sparire e tornare alla natura, mangiato dai coccodrilli», diceva con l’ironia a chi lo andava a trovare nella sua casa milanese, sempre con le tapparelle abbassate, sempre con i decori natalizi alla porta, arredata con mobili bianchi ed essenziali (che lui stesso aveva disegnato), come essenziale è stata tutta la sua vita di artista poliedrico che lo ha visto protagonista internazionale dell’Arte programmata e cinetica.

La copertina de «la Lettura» #107 dell’8 dicembre 2013, firmata da Getulio Alviani
La copertina de «la Lettura» #107 dell’8 dicembre 2013, firmata da Getulio Alviani

Per tutti era semplicemente Get: per i tanti amici, per i compagni di strada, per chi gli riconosceva la sua forza di artista che amava gli artisti, di teorico e polemista, di dissacrante affabulatore (solo un anno fa con Hans-Ulrich Obrist ha raccolto applausi a scena aperta polemizzando a buon titolo sulle distorsioni del sistema dell’arte) di grafico minimalista, di raffinato designer e di architetto. Alviani, friulano di Udine, portava con sé quella cultura del fare tipica della sua terra e forse proprio quel legame col lavoro materiale lo ha condotto verso sculture metalliche come magiche illusioni cariche di energia vibrante: «Quando le cose mi apparivano, e cercavo di scoprirle, mi interessava solo la materia, che si pensa sempre inerte, mentre per me era sempre dinamica, mutevole».

La scultura «Cerchi progressivi» di Getulio Alviani La scultura «Cerchi progressivi» di Getulio Alviani

Siamo negli anni Cinquanta e proprio da quelle prime esperienze sperimentali Alviani lavora sulle superfici metalliche, creando una sorta di «testura vibratile». È l’inizio della sua visione dinamica della materia che mette insieme geometrie, luce, forma modulare. Saranno opere moltiplicabili in serie, eseguite sempre a mano libera. Opere dalla forte intensità ottica vibratile grazie a strutture dinamiche e su precisi ordini matematici: la sua è un’arte che insegue la perfezione assoluta. Ma Alviani è soprattutto curioso, in cerca di esperienze, desideroso di conoscenze culturali e umane.

Gli viene così naturale instaurare i primi contatti con i grandi del Costruttivismo: da Georges Vantongerloo a Konrad Wachsmann, da Josef Albers a Max Bill. Sarà l’inizio di una lunga trama di amicizie, che lo porterà sino a Gropius, Arp, Sonia Delaunay e poi a Lucio Fontana, sino al vecchio amico Enrico Castellani, che solo tre mesi fa, poco prima di morire lo ha chiamato pronunciando solo due parole: «Ciao Get». Ma Getulio, che stava già molto male, se n’è andato senza rendersi davvero conto che quel saluto era un addio.

Getulio Alviani era avvolto da un’ammirazione diffusa: per la sua intelligenza di artista sperimentatore fuori dagli schemi, per la sua visione rigorosa e, perché no, per la sua vis polemica, ma soprattutto per il suo fare complice e generoso verso i compagni di viaggio. Lo racconta anche la sua storia artistica. Ha spesso preferito alle proprie mostre un’idea di lavoro di squadra, coinvolgendo così i vecchi compagni di viaggio: «Lo scopo del lavoro è far diventare storicamente oggettiva tutta la storia delle avanguardie russe ed europee fino all’arte logica dei giorni nostri», ricorda. Ma Alviani è stato soprattutto presente in importanti mostre, da quella fondativa del 1962 , Arte programmata nel negozio Olivetti di Milano, alla Biennale di Venezia del 1964 (voluto da Fontana), dalla storica The Responsive Eye al MoMa di New York nel 1965 a quella più recente, del 2013, Dynamo al Gran palais di Parigi, che metteva insieme tutti i protagonisti dell’arte cinetica. Fino a quella del novembre 2017 ancora al MoMa: Thinking Machines: Art and Design in the Computer Age, 1959–1989 in cui il lavoro di Alviani è messo in relazione con l’avvento delle nuove tecnologie informatiche.

Era stato Bruno Munari a inventare la definizione Arte programmata, intesa come opera che nasce su un programma di calcolo, all’interno di un sistema di ripetizioni o variazioni creative. Non a caso Alviani inseguiva in ogni frammento della sua vita l’idea del pensiero progettuale. E la matematica era la sua stella polare: nelle sue lamine di alluminio levigate secondo particolari angolazioni e montate su moduli, nei suoi collage colorati, nelle costruzioni di veri ambienti specchianti come Interrelazione cromospeculare del 1969, in cui le persone agiscono nello spazio confrontandosi con lamine e colori, in uno spettacolare labirinto visivo. D’altronde, Alviani ha posto proprio il tema della percezione al centro del suo lavoro. La sua volontà è stata sempre quella di attivare una sollecitazione dell’occhio, un modo per riflettere sul senso del vedere. Una visione anche pedagogica dell’arte nella società. E ripeteva come un mantra: «L’arte per me è sempre stata progetto».

Una visione rigorosa e una cultura del fare che lo ha accompagnato sino all’ultimo: era riuscito a trasformare la sua stanza dell’ospedale in un ufficio dove, con il suo ultimo amore Diora Fraglica, ha lavorato alla redazione di una nuova monografia e alla creazione di una fondazione che porterà il suo nome: una istituzione con sede a Milano e che sarà anche un centro di ricerche con borse di studio per studenti e artisti.

Dal carattere franco e talvolta surreale, Alviani era avvolto negli ultimi anni da un pessimismo cosmico che lo portava a scagliarsi contro un mondo che non comprendeva e non accettava più. Detestava il conformismo, la superficialità degli artisti, la sciatteria dei collezionisti, le nuove forme d’arte prive di contenuto e i falsi quadri (tanti) che vedeva nelle fiere. Ma non aveva mai perso la sua verve da anarchico controcorrente, perfezionista, testardo e irriverente. Era un burlone col gusto del paradosso. Amava scrivere brevi pensieri: fulminanti aforismi sull’arte ma in tutti i suoi libri pretendeva che i testi fossero soltanto in minuscolo. Riciclava buste e francobolli usati come gesto di sfida contro le regole costituite. E in un angolo della sua casa teneva la foto di un recente capo del governo su cui sputava ogni mattina, ritenendolo causa di vessazioni per lui nocive al Paese e all’arte.

Era così: colto, appassionato, imprevedibile. Da irrefrenabile affabulatore è stato capace di padroneggiare la parola come la materia. Forse per questo ha voluto lasciarci queste parole, malinconicamente profetiche e rigorosamente in minuscolo: «un bel silenzio non fu mai scritto».

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