Adolfo Rossi cronista: inchieste e denunce dalla parte dei più umili

di GIAN ANTONIO STELLA

Moriva cento anni fa l’animatore del «Progresso Italo-Americano», primo quotidiano peri nostri connazionali negli Stati Uniti. Scrisse anche per il «Corriere»

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Adolfo Rossi (a destra) nel 1895 in Etiopia (foto Asro, Archivio di Stato di Rovigo)

Deciso a sfuggire al destino di impiegatuccio nel quale «si cessa d’essere uomini per diventare carrucole», mollato l’impiego postale di cui la mamma era «contentona» e partito in gran segreto per l’America, Adolfo Rossi sbarcò a Nuovaiorche nell’estate del 1879 con in tasca quattro scellini. L’equivalente di cinque lire, il costo di una parola nei telegrammi transatlantici. Il resto, un tesoretto su cui contava per il vitto e l’alloggio di un paio di mesi, glielo avevano sfilato di tasca la notte prima, mentre dormiva nella pulciosa cuccetta di terza classe del bastimento.

Altri, rapinati del povero gruzzolo quando finalmente erano lì, nell’«America allegra e bella/ America sorella» sognata nei canti d’epoca, si sarebbero abbandonati allo sconforto. Alcuni si uccidevano. Diversi annegavano la disfatta nei liquori di topaie malfamate per finir vittime «di quei farabutti che bazzicano nei dintorni di Castle-Garden, che assaltano gli immigranti, li frugano, li soffocano e li gettano poi nel fiume…». Lui no. Non era tipo da disperarsi. Accettò i più umili lavori giornalieri, patì la fame («Certe sere cenavo con dei valtzers di Strauss ascoltati al giardino pubblico»), fece l’apprendista in una fabbrica di occhiali, vendette acqua fredda e ventagli cinesi sulla spiaggia di Coney Island, si impiegò come sguattero da un pasticciere, imparò a fare il gelataio, studiò l’inglese da una «vecchia signora americana, ricca, amante degli italiani» finché gli arrivò, sul serio, l’occasione della vita.

«Nel 1880 si pubblicava a New-York un solo giornale settimanale in lingua italiana intitolato “L’Eco d’Italia”», racconterà nel libro Un italiano in America il leggendario reporter del quale si ricorda quest’anno il centenario della morte a Buenos Aires nel 1921, «quando un italiano ardito e intraprendente, il signor Carlo Barsotti, decise di forgiarne uno quotidiano». Fatta fortuna con alberghi che affittavano camerette «grandi come le celle dei frati», non c’entrava niente con l’editoria. Ma il suo problema era un altro: tra la massa di contadini veneti, liguri o siciliani arrivati analfabeti, quanti sapevano non dico l’inglese, ma almeno l’italiano? Scriverlo, poi...

Fu così che il giovane Adolfo si ritrovò a essere il primo redattore (lui scriveva la pagina di cronache italiane, lui gli «ultimi dispacci transatlantici» tradotti dall’inglese, lui i titoli, lui l’editoriale) de «Il Progresso Italo-Americano», destinato a divenire il più venduto (centomila copie) e autorevole quotidiano tricolore in America. Un’esperienza formidabile, interrotta da un periodo passato in Colorado alla costruzione della ferrovia verso il West («Che senso ha emigrare in America per fermarsi in un porto di mare, senza conoscere le immense solitudini e i laghi e i monti di questo grande continente?») e conclusa con la decisione, ora che sapeva tutto del mestiere, di tornare in Italia. Stavolta in una cabina di prima classe, ma con lo stesso spirito. Quello che lo spinse, durante una tempesta in cui tutti vomitavano l’anima, a farsi legare a un albero della nave per provare il piacere «di sentirsi coprire dalle onde altissime e di sparire di tanto in tanto per un momento sotto il liquido elemento».

Insomma, un fenomeno. E «in Italia, dove il giornalismo cominciava solo allora a liberarsi della tradizione retorica degli uomini di lettere per diventare strumento di informazione (e di potere)», spiega lo storico Giampaolo Romanato nel libro L’Italia della vergogna nelle cronache di Adolfo Rossi, lui «arrivò come una ventata di novità» e si ritrovò davanti «una strada tutta in discesa». Già il primo articolo sul «Corriere», di spalla, in prima, spazzò via anni e anni di parrucconi. Scrisse che il direttore gli aveva chiesto d’andare a Pietroburgo per vedere la tumulazione dello zar ma che, saputo di una feroce rapina a un possidente a Tortolì, in Sardegna, aveva cambiato idea dirottandolo laggiù. Al che aveva risposto: nessun problema, «nella valigia già pronta non ho che da sostituire il frack con un paio di scarponi e il Baedeker con un revolver». Testuale. Da allora per il nostro giornale, come prima firma e poi redattore capo nei giorni dei moti di Milano repressi da Bava Beccaris, fece di tutto. Dai reportage nel Veneto a quelli nel Corno d’Africa, dalla cronaca dell’apertura del Parlamento a Roma a quella degli aiuti inviati dai lettori in Calabria dopo un terremoto, aiuti di cui lui era il garante.

Spirito libero, diffidente verso i politici, sensibilissimo ai temi della miseria, dei diritti e dello sfruttamento, come ricordano Pier Luigi Bagatin e Luigi Contegiacomo ne Il Polesine di Matteotti. Le inchieste giornalistiche di Adolfo Rossi e Jessie White (edito da Cierre e Casa Museo Matteotti) appena avvertiva un qualche imbarazzo se ne andava. Da «La Tribuna» a «La Sera», dal «Corriere Toscano» al «Secolo XIX»... Finché si stufò dei giornali (sognava di farne uno suo, «con poche chiacchiere e molte notizie, senza astii e rancori personali») per andare a fare l’ispettore dell’emigrazione. Denunciando per vent’anni nei suoi straordinari rapporti le condizioni bestiali in cui vivevano gli italiani inghiottiti da miseria, violenza, servitù della gleba un po’ ovunque dal Sudafrica al Brasile, dall’Argentina agli Stati Uniti già descritti in Un italiano in America: «A New-York c’è quasi da vergognarsi d’essere italiani. La grande maggioranza dei nostri compatrioti, formata dalla classe più miserabile delle Provincie meridionali, abita nel quartiere meno pulito della città, chiamato i Cinque Punti (Five Points). È un agglomeramento di casacce nere e ributtanti, dove la gente vive accatastata peggio delle bestie. In una sola stanza abitano famiglie numerose: uomini, donne, cani, gatti e scimmie mangiano e dormono insieme nello stesso bugigattolo senz’aria e senza luce».

Nessuno, forse, ha mai raccontato meglio la vita dei carusi schiavi dei picconieri nelle miniere di zolfo, poco più che bambini, nudi, costretti a salire stracarichi cunicoli lunghi oltre cento metri: «”La settimana scorsa il caruso Angeleddu, d’anni tredici, fu ucciso dal proprio picconiere con otto bastonate”. “E il picconiere non fu arrestato?” “Non li arrestano mai. Chi s’incarica dei carusi? I carusi, quando muoiono ammazzati, per le autorità sono morti sempre di morte naturale”». Nessuno quella dei braccianti polesani: «Ogni volta che in una stalla dei villaggi del Polesine muore di qualche malattia un bue o una vacca, il veterinario del mandamento ne ordina il seppellimento. (...) Ma appena questi si allontana di pochi passi, succede una scena selvaggia. Venti o trenta contadini armati di badili, di accette, di falci e di coltelli si avanzano frettolosamente, dissotterrano l’animale e lo tagliano cercando ognuno di prendersi i pezzi migliori. (...) Appena hanno preso la loro parte di bottino, corrono a casa e mettono la carne e le ossa a bollire nel paiolo in cui fanno la polenta. Generalmente è carnaccia insipida, nauseabonda, di bestie che subirono una lunga malattia e inghiottirono ogni sorta di medicamenti; ma i poveri affamati che cosa non mangerebbero?»

22 ottobre 2021 (modifica il 22 ottobre 2021 | 20:31)