Sauro Tomà, l’ultimo saluto all’Invincibile

  • Tanta gente ieri, venerdì 13 aprile, alle esequie di Sauro Tomà, l’ultimo degli Invincibili, il superstite unico del Grande Torino finito a Superga il 4 maggio 1949. Uomini e donne di anagrafe antica e spessa, e d’occasione per molte conoscenze ripescate fra i resti ancora in vita di quel popolo enorme, seicentomila persone, che il 6 maggio 1949, ai funerali del Grande Torino, cercavano dov’era con il suo pianto unico proprio Sauro Tomà, il sopravvissuto. Ma anche molti non vecchi e addirittura molti giovani, molti ragazzi con le sciarpe di tifosi anzi di ultras del Toro. Amici, parenti, giornalisti intorno alla figlia Danila che prese il nome da Danilo Martelli, il campione canterino, compagno e speciale amico di Tomà, in quella squadra magica, nel mestiere d riserva speciale, pronta e forte. (continua)

  • La vignetta pubblicata dal Torino Calcio su Instagram: Tomà raggiunge i suoi compagni

  • La messa officiata con sermone commovente e però non lacrimoso da don Riccardo Robella, il cappellano del Toro succeduto al mitico don Aldo il cui nome stava sulla sciarpa del club di tifosi sistemata sulla bara, accanto allo stendardo della società, alla foto di squadra, «quella là», alla maglia del giocatore morto a 92 anni e mezzo, di cui oltre 70 avvinto al Toro. Perché Tomà, dopo le tre stagioni (dal 1947) con gli Invincibili e le due nel Toro rifatto, giocò ancora con altre maglie, e però tornò a Torino ormai città eletta per viverci e fece davvero il predicatore costante della grandezza sportiva e dunque umana (allora era proprio così) di coloro che chiamava «i miei fratelli scomparsi». Ogni giorno, sino a che una malattia lo bloccò in carrozzella, andava al Filadelfia, la sua chiesa, a scusarsi di non essere stato, quel giorno, con loro — lui fermato a Torino da un infortunio — su quell’aereo tragico.

  • Tanta ufficialità dolente, il gonfalone di La Spezia dove Sauro era nato, la corona di fiori gialloblu del comune di Torino, tantissime bandiere di club di tifosi granata, nessuna bandiera di altre squadre (lasciamo perdere, lasciamole «perdere»). E fiori fiori fiori del colore rosso intenso che si sa. Gli ex calciatori granata. Sala e Cereser, Puia e Salvadori, Zacarelli e Pallavicini. E Il figlio di Ossola che giocò con Sauro. E chi non abbiamo visto, e chi dimentichiamo. E si capisce il Torino inteso come società, dal direttore Comi a Benedetti, dall’addetto-stampa Venera a tanti altri, e un amico speciale di Sauro che ci ha ricordato quel gran signore che era, incapace di accusare Nordahl, il cannoniere svedese del Milan che pure gli fracassò un ginocchio handicappandolo per sempre.

  • La chiesa quella di San Giorgio Martire, vicina a piazza d’Armi e dunque anche allo stadio del Torino: sì, Giorgio quello del drago, santo guerriero discusso e misteriosetto, santo guerriero usato dai crociati e anche dagli islamici. La salma poi al cimitero monumentale per la cremazione, le ceneri accanto ai loculi di alcuni giocatori del Grande Torino. La camera ardente di ieri l’altro a Palazzo Madama, proprio dove fu approntata quella dei morti di Superga, aveva già visto l’ufficialità variegata, ieri è stata prevalente una intimità speciale, «di famiglia».

  • C’erano ad esempio quelli che conoscevano l’edicolante gentile e cordiale Tomà ex calciatore, e c’erano i tifosi speciali del superclub di Pontremoli, sopra La Spezia, di cui Tomà era spesso ospite, in quella Lunigiana degli abitanti «non più emiliani, non ancora toscani, non mai liguri», come ci recitava l’amico Sauro. Che era un glorioso giocatore del Grande Torino ma anche, o forse proprio per questo, un uomo davvero speciale, caldo e sereno, triste e sorridente. (di Gian Paolo Ormezzano)