3 luglio 2020 - 08:37

Incendio a Marghera, l’operaio uscito dal coma: «Ero una torcia umana, sono saltato da 12 metri»

Parla Pramod Saw, il lavoratore ricoverato a Verona per gravi ustioni dopo il rogo allo stabilimento chimico 3V Sigma di Marghera

di Pierfrancesco Carcassi

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VENEZIA «Mi ricordo benissimo di ogni dettaglio. Le immagini delle fiamme mi tornano di continuo davanti agli occhi». Dal suo letto all’ospedale Borgo Trento, a Verona, l’operaio ternano Pramod Saw, origini indiane rese evidenti dal nome, parla al telefono con voce tranquilla. Ma nella sua mente l’inferno del rogo allo stabilimento chimico 3V Sigma di Marghera, cui è sopravvissuto lo scorso 15 maggio, non si è mai spento. Si è svegliato una ventina di giorni fa, dopo oltre un mese di coma, con ustioni su metà del corpo. La moglie e la sorella si sono trasferite da Terni a Verona per assisterlo e sui social gli amici hanno diffuso un iban(IT09R0306914499000000081611) per raccogliere fondi destinati alle spese mediche e al futuro della sua famiglia.

L’incendio alla 3V Sigma di Marghera
L’incendio alla 3V Sigma di Marghera

Signor Saw, cosa ricorda di quella mattina alla 3V Sigma? «Ricordo tutto. Eravamo in due (l’altro operaio ferito, Alin è ricoverato a Padova, ndr) e dovevamo installare un tubo d’acciaio nuovo su uno vecchio: non so cosa contenesse, ma quella mattina l’ingegnere che di solito ci dava indicazioni sui lavori da fare non c’era. Aveva lasciato detto tutto al capoturno: lui ci ha dato la conferma che su quel tubo potevamo lavorare in sicurezza. Siamo andati a prendere l’attrezzatura, la mola, la saldatrice, la maschera e la cinta di sicurezza. Lavoravamo in altezza e abbiamo messo delle tavole di legno sopra i tubi per poterci camminare».

Pramod Saw mentre abbraccia il figlio in ospedale (archivio)
Pramod Saw mentre abbraccia il figlio in ospedale (archivio)

E poi cos’è successo? «Dopo aver tagliato il tubo vecchio, avremmo dovuto saldare un tappo di lamiera su una delle estremità. Ma appena abbiamo messo un punto di saldatura ha preso fuoco tutto. Io avevo la cinghia di sicurezza allacciata, sono andato nel panico, non capivo nulla. Ho pensato solo a mia moglie e a mia figlia di tre anni e mezzo. Ho visto la morte in faccia».

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Come ha fatto a salvarsi? «Ho sganciato la cinta di sicurezza e mi sono buttato di sotto, un salto di dieci o dodici metri. Non so come ho fatto a non rompermi nulla, forse qualche santo... Ma nel frattempo stavo andando a fuoco. Cercavo acqua in tutto il reparto ma non c’era nessuno. Gli altri operai erano usciti tutti. Alla fine ho trovato un collega che mi ha spento le fiamme addosso usando l’acqua della manichetta antincendio. Sono caduto a terra e l’ultima cosa che ricordo sono le sirene delle ambulanze».

Ha riportato ferite molto gravi. «Ho ustioni di terzo grado sulle braccia e sulle gambe, metà del corpo. Quelle al volto sono solo di primo grado. Scriva dell’operazione di cinque ore che mi hanno fatto a giugno, voglio che si sappia dappertutto: mi hanno trapiantato la pelle sana sulle parti rovinate dalle fiamme. La pelle nuova fa male, tira. Devo fare anche fisioterapia perché ho difficoltà a muovere le gambe. Non so ancora quando mi potrò rimettere o tornare a casa».

Ripensa al momento dell’incidente? «Ci penso parecchie volte. Mi tornano spesso davanti agli occhi le immagini di quei momenti. Non riesco a dormire, devo prendere le gocce. Penso che non doveva succedere, il capoturno ci aveva detto che era tutto in sicurezza. Ci sono momenti in cui non ce la faccio più, e allora penso alla mia bambina: le faccio una videochiamata e tutto passa. Ho anche messo una sua foto accanto al letto d’ospedale, me l’ha suggerito lo psicologo che mi sta seguendo. Quando mi vengono in mente le immagini dell’incidente la guardo e mi tranquillizzo».

Da quanto non vede sua figlia? «Dal 7 marzo, quando siamo partiti con la ditta da Terni per la trasferta a Marghera. Poi con il Covid non sono potuto tornare indietro e ora, a causa dell’incidente, sono ancora qui. Mia figlia non sa nulla di quello che mi è successo, è piccola. Mia moglie le ha solo detto che papà ha una piccola bua, tutto qui».

Ha potuto parlare con il suo collega Alin? «Si ci siamo sentiti solo una volta. Lui non si ricordava nulla dell’incidente. Gli ho spiegato io cosa ci era successo. Lui è parecchio ustionato, soprattutto sulla faccia».

I suoi amici hanno inaugurato una raccolta fondi per lei. «Loro mi danno tanta forza. Sono rimasti molto male quando hanno saputo quello che mi era capitato. Mia moglie e mia sorella hanno preso un appartamento in affitto per starmi vicino, costa 600 euro al mese, e le spese sono tante. Per il momento ho riportato il mio caso ai sindacati Cisl di Terni. Ma ad oggi i medici non mi hanno ancora detto se sarò in grado di tornare a lavorare un giorno».

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