2 settembre 2020 - 16:30

Quando Philippe Daverio disse: «Parigi? A Torino si vive meglio»

Il critico d’arte: «E Cavour unì l’Italia per vendere meglio il Barolo»

di Elisabetta Rosaspina

Quando Philippe Daverio disse: «Parigi? A Torino si vive meglio»
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- Quest’intervista a Philippe Daverio venne pubblicata in occasione del Salone del Libro di Torino nel maggio 2018. Lo riproponiamo nel giorno della scomparsa del critico d’arte.

«L’Unità d’Italia? Un’operazione di marketing, per esportare il Barolo». Torrenziale, irriverente, divertito, incontenibile: il critico d’arte Philippe Daverio provoca il pubblico del Salone del Libro con una lectio magistralis intitolata «Uno straniero in Italia» sulle radici nazionali e, soprattutto, sui frutti che ne stanno nascendo.

Ma che cosa c’entrano Camillo Benso conte di Cavour e l’Unità d’Italia con il vino rosso piemontese?
«Lo sanno tutti. Andò così: Cavour convinse la marchesa Giulia di Barolo a produrre un vino forte, secco, à la française, al posto di quello dolce e liquoroso che usava allora. Poi Cavour si è detto che, fatto il Barolo, occorreva trovare il cliente, e ha unificato l’Italia per poterlo commerciare».

Così lei ha «finalmente capito l’Italia», come dice il titolo del suo ultimo libro?
«Alcune questioni aperte oggi hanno radici che risalgono a quel tempo — torna grave Daverio —. L’azione antiunitaria dei Cinque Stelle, per esempio, che puntano a ridisegnare il Regno delle Due Sicilie. Tutto quello che succede non è casuale, ha delle radici. Ed ecco la mia ipotesi».

Quale?
«Quella di ritornare a un’unità linguistica, artistica, letteraria, tutt’al più giuridica, come nell’Italia preunitaria. Visto che siamo ancora alla battaglia fra Guelfi e Ghibellini, sulla scelta tra appoggiare o contrastare l’impero».

Lega e Cinque Stelle?
«I Guelfi sono i Cinque Stelle, secondo i quali una Brexit assistita per il Regno delle Due Sicilie ci potrebbe stare. La Lega è un po’ guelfa e un po’ ghibellina, perché non può sostenere l’uscita dall’Europa senza rischiare di perdere voti tra gli imprenditori veneti, molto attenti ai propri affari. Avrete notato che la politica è tornata alle tre “effe” di Franceschiello».

Ferdinando di Borbone?
«Eh, già: feste, farina e forca. La Storia aiuta a capire l’attualità e ad attuare qualche attendibile proiezione nel futuro».

Perché crede che gli italiani siano così diversi dagli europei?
«Perché gli europei credono nella centralità della figura politica: König, il re, e können, il sapere, sono quasi la stessa parola. In Italia prevale il concetto di cives, cittadini: la Repubblica di Venezia si forma attorno alla propria nobiltà, quella di Firenze si fonda sul lavoro, Milano sulla oligarchia...».

D’accordo, ma lei si sente ancora straniero in Italia?
«Da rozzo alsaziano rimasi impressionato dalla raffinata Milano anni ‘50, con i camerieri in guanti bianchi. Sono diventato milanese a 16 anni e senza rimpianti. Nei vent’anni successivi, mentre la Francia arretrava, l’Italia è avanzata. A Parigi si vive peggio, rispetto a 30 anni fa; a Milano, Torino e Genova si vive molto meglio».

Titolo del prossimo libro?
«Vorrei capire l’Europa».

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