Milano, 28 luglio 2017 - 11:32

Morto Enzo Bettiza, il lungo esilio
di un intellettuale mitteleuropeo

Nato a Spalato nel 1927, inviato e corrispondente del «Corriere» e di altre testate, finissimo letterato. Comunista da giovane, divenne uno dei critici più spietati dell’Urss

Enzo Bettiza con Indro Montanelli Enzo Bettiza con Indro Montanelli
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Era stato comunista da giovane, per un breve periodo. Ma ben presto lo scrittore e giornalista Enzo Bettiza, scomparso all’età di 90 anni, si era reso conto di quanto la devozione cieca richiesta ai militanti di un partito stalinista fosse letale per la stessa dignità umana. E lo aveva raccontato in modo vivido, attraverso una galleria di personaggi l’uno più tormentato dell’altro, nel suo primo romanzo La campagna elettorale, pubblicato nel 1953 dal piccolo editore Bianchi Giovini (poi ristampato da Rizzoli e nel 1997 da Mondadori). Più tardi, da giornalista affermato, Bettiza sarebbe divenuto uno degli analisti più acuti e spietati dell’ideologia e dei regimi di marca sovietica.

Nato il 7 giugno 1927 a Spalato (allora Jugoslavia, ora Croazia, ma pur sempre Dalmazia) da una famiglia dell’alta borghesia costretta a trasferirsi in Italia dopo la guerra in seguito alla vittoria dei partigiani rossi di Tito, Bettiza era un intellettuale dalla vocazione schiettamente mitteleuropea, estraneo ad ogni appartenenza etnica esclusiva. Così scriveva di se stesso nel libro Esilio (Mondadori, 1996): «Segnato da iniziali influssi serbi nell’infanzia, poi italiani nella pubertà, quindi croati nell’adolescenza, ai quali dovevano aggiungersi più tardi innesti germanici e russi, ho lasciato concrescere poco per volta in me multiformi radici culturali europee; non ho mai dato molto spazio alla crescita di una specifica radice nazionale».

L’aspirazione iniziale di Bettiza, dopo l’approdo in Italia, era stata quella di diventare pittore, per cui si era iscritto all’Accademia di Belle Arti a Roma. Ma non era la sua strada e il giovane dalmata stentava a trovarne una. Aveva vissuto per qualche tempo di lavoretti precari, prima di essere assunto nel 1953 dal settimanale «Epoca» e in seguito dalla «Stampa» di Giulio De Benedetti, per cui fu corrispondente a Vienna e a Mosca. Nel 1964 il passaggio al «Corriere della Sera» come inviato speciale: la formazione culturale poliglotta e lo spiccato talento nella scrittura ne facevano una penna di straordinaria efficacia nei reportage giornalistici dall’estero.

Al secondo romanzo Il fantasma di Trieste (Longanesi, 1958; poi riproposto da Mondadori), Bettiza aveva cominciato ad affiancare negli anni Sessanta una raffinata produzione saggistica. Libri colti e densi, d’impianto problematico: «Il cielo in cui si stagliano le sue ricostruzioni critiche — scrisse Geno Pampaloni a proposito di quei testi — non è mai del tutto terso, ma è illuminato da un sole che lo attraversa in mezzo a un sempre vario passaggio di nuvole, ora dense e cupe, ora di delicato spessore, ora sparse a distanza tra larghi spazi di sereno».

Il tema più ricorrente tanto nei saggi quanto nei romanzi di Bettiza era sempre il comunismo, nel quale vedeva una minaccia alla libertà da non sottovalutare. Perciò, quando il «Corriere della Sera», sotto la guida di Piero Ottone, aveva mostrato una maggiore indulgenza nei riguardi del Pci, Bettiza nel 1974 non aveva esitato a lasciarlo per seguire Indro Montanelli al «Giornale nuovo», di cui era diventato condirettore. Sulle vicende del suo ex giornale avrebbe poi espresso giudizi abrasivi nel libro di ricordi Via Solferino (Rizzoli, 1982).

Nello stesso anno, con lo stesso editore, avrebbe pubblicato il suo lavoro di maggior impegno teorico sul comunismo, Il mistero di Lenin, nel quale tracciava, a partire appunto dalla figura umanamente enigmatica del fondatore dello Stato sovietico, una vera e propria antropologia dell’homo bolscevicus. Con ostentato disprezzo lo definiva «un ominide meccanico, duro, opaco, capace di esistere unicamente e interamente nel presente socialista, privo di memoria, di dubbi, di rimorsi». Più tardi aveva mostrato un profondo e motivato scetticismo verso i tentativi riformatori, peraltro fallimentari, compiuti in Urss da Mikhail Gorbaciov.

L’esperienza al «Giornale» era coincisa con l’ingresso diretto in politica. Bettiza era entrato nel 1976 al Senato, per il quale si era candidato in un contesto di alleanza laica (Pli-Pri-Psdi), e aveva partecipato alle votazioni che portarono Sandro Pertini al Quirinale, vicenda su cui aveva scritto il Diario di un grande elettore (Editoriale nuova, 1978). Poi nel 1979 era passato al Parlamento europeo come deputato liberale. Era un sostenitore convinto del patto lib/lab, l’intesa tra il Pli e il Psi di Bettino Craxi, di cui apprezzava la presa di distanza dal Pci. E proprio sulla figura del segretario socialista si era aperto un contrasto tra lui e Montanelli (assai più diffidente verso il leader del Garofano), che lo aveva indotto a lasciare «il Giornale» nel 1983 per diventare editorialista della «Stampa» di Torino. La terza elezione di Bettiza al Parlamento europeo, nel 1989, era avvenuta sotto l’insegna del Psi di Craxi, del quale aveva conquistato la piena fiducia.

Dagli anni Novanta in poi si era intensificata la sua produzione letteraria e saggistica, con il fluviale romanzo I fantasmi di Mosca(Mondadori, 1993) e molti altri testi, in prevalenza dedicati alle vicende dell’Europa orientale, come la Rivoluzione ungherese del 1956 e la Primavera di Praga del 1968. Neanche la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’impero sovietico avevano distolto Bettiza dall’impegno a ripensare e dissezionare il comunismo come evento centrale del Novecento. Era convinto che il XX secolo non fosse stato per nulla breve, ma al contrario «lungo, lunghissimo».

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