Mamma Ebe, santona truffatrice. Una vita tra carceri e ville di lusso

di Riccardo Bruno

Rimini, Gigliola Giorgini è morta a 88 anni. I seguaci dovevano lasciarle tutti i beni. Ha vagato per mezza Italia, ricostituendo dopo ogni condanna gruppi di fedeli

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La prima volta che Gigliola Giorgini ebbe a che fare con la giustizia fu nel febbraio del 1957. Aveva 24 anni, non era ancora diventata «Mamma Ebe», aveva avuto una strana malattia, era andata in Puglia da Padre Pio, era tornata guarita e adesso spergiurava che pure lei era in grado di guarire. Quando la polizia arrivò nella sua cascina, nella campagna pratese, per contestarle il «mestiere di ciarlatano», trovò davanti la porta una fila di disperati, e lei a letto, bendata alla testa e alle mani, perché diceva di avere le stimmate. L’ultima volta fu invece nel 2017: ormai 84enne, la santona più famosa d’Italia finì per l’ennesima volta ai domiciliari. Aveva di nuovo trasformata la sua casa, una villa nel Riminese, in un tempio improvvisato, con adepti e creduloni pronti a seguirla in tutto.

La «Pia unione di Gesù misericordioso»

La vicenda di Mamma Ebe, morta due giorni fa all’ospedale di Rimini per una neoplasia, è molto di più della storia di una guaritrice accusata e condannata per truffa ed esercizio abusivo della professione medica, che per decenni ha continuato a somministrare acqua da lei benedetta (perfino dal carcere) e pozioni a suo dire miracolose. È la metafora di un’Italia non più contadina e non ancora ammaliata dai social, che ha voluto credere a rimedi favolosi quando la scienza non dava risposte, ha idolatrato una donna che si spacciava per medico, che aveva occhi azzurri e un grande carisma, e che si era inventata una sua confessione religiosa. L’aveva chiamata la «Pia Unione di Gesù Misericordioso». Quando venne arrestata nel 1984, gli inquirenti scoprirono che dalle sue labbra pendevano decine di ragazzi e ragazze che chiamava «suore» e «seminariste», le donne vestite con tuniche color cenere, gli uomini con maglioni blu scuro. Si muoveva nell’ambiguità, il vescovo di Pistoia Simone Scatizzi aveva pronunciato l’interdizione canonica, diffidando i credenti e i sacerdoti a frequentarla. Ma lei aveva tirato dentro anche un monsignore romano e un anziano padre francescano, millantava coperture in Vaticano, e alle pareti teneva una foto dov’era accanto a Wojtyla.

Il film di Carlo Lizzani

La sua presunta vocazione però faceva a pugni con i tre mariti, le tante chiacchiere e l’attrazione per i beni materiali. Chi entrava nella sua congregazione doveva lasciare (a lei) ogni bene. Lei utilizzava i seguaci come infermieri e li piazzava nelle tante case di cura che controllava, raggirando anziani o malati psichici. Si faceva pagare da tutti, dagli adepti e da chi chiedeva di essere guarito, collezionava immobili e preziosi, amava lo champagne e gli abiti eleganti. Il secondo marito, che era andato per farsi curare una tremenda acne e se n’era invaghito, quando venne arrestato si pentì ed elencò in udienza i beni che la sua consorte aveva già collezionato: tre ville, una dozzina di appartamenti, tre costose barche, oltre 200 milioni di lire di gioielli, pellicce. Ne indossava una di volpe rossa quando fu portata in carcere. Sicura di sé e spavalda, di fronte agli inquirenti rimase con gli occhiali da sole: «Non li tolgo perché a voi non è consentito guardare i miei occhi». Era già una star a modo suo. L’anno dopo Carlo Lizzani presentò a Venezia Mamma Ebe, dopo aver a lungo indagato su di lei e chi le stava attorno. Con lucidità spiegò che il suo film si chiedeva «come sia possibile che tali forme riescano a sopravvivere per decenni, senza che lo scandalo diventi palese e i crimini possano essere puniti».

Le condanne

La risposta arrivò due anni dopo, al processo d’Appello a Torino, che punì senza punire. La Corte confermò le accuse, di essersi approfittata di anime semplici, di aver «sequestrato» le suore che volevano ribellarsi, punite anche facendo loro leccare il pavimento, di aver esibito lauree fasulle, di aver lucrato praticando massaggi e dando finti farmaci a malati anche gravi. Tutto vero, ma pena dimezzata a 6 anni, poteva uscire e andare ai domiciliari. Gli avvocati difensori gridarono: «Tutti a casa!», e lei sospirò: «Ringrazio la corte. La via della verità è irta...». Da San Baronto nel Pistoiese a Carpineto vicino Cesena, ha vagato per mezza Italia spostando le sue «chiese» e ricostituendo ogni volta i suoi fedeli. Nel 2002 venne nuovamente arrestata, nel 2008 condannata a 7 anni, altri guai nel 2010, nel 2016 la conferma definitiva in Cassazione. In mezzo una parentesi come noleggiatrice di yacht a Cesenatico, messa su con il terzo marito, suo ex seminarista. L’ultima volta aveva fatto parlare di sé 4 anni fa. L’aveva denunciata una donna che non riusciva ad avere figli, la pomata che le aveva ordinato le aveva provocato irritazioni e lesioni. Era stato il marito a convincerla: «Fidati di Mamma Ebe. L’hanno perseguitata, ma vedrai che fa miracoli».

7 agosto 2021 (modifica il 7 agosto 2021 | 22:58)