Bombe «infami» su Pearl Harbor
Così la guerra divenne mondiale
Il 7 dicembre 1941 la base navale, sede della Flotta del Pacifico della Marina militare statunitense, venne attaccata a sorpresa dagli aerei del Sol Levante. Tokio sognava un suo impero in Asia, ma lo scontro con l’America si sarebbe concluso con i funghi atomici di Hiroshima e Nagasaki
«Forget it». Dimenticatene. ll 7 dicembre del 1941 è una domenica mattina che si preannuncia tranquilla e soleggiata, in tutto l’arcipelago delle Hawaii e nella principale base navale americana del Pacifico, Pearl Harbor, sull’isola di Ohau. Alle 7.40 il soldato semplice di seconda classe George Elliot, che sta facendo gli «straordinari», rileva sull’unico radar in funzione l’avvicinamento di «numerosi aerei a 132 miglia». La risposta dell’ufficiale di guardia al comando, Kermit Tyler, è questa: «Forget it». Un errore di valutazione che fa da prologo a uno dei principali momenti di svolta della Seconda guerra mondiale, che da quel giorno si allargò davvero a comprendere tutto il globo. Tyler era in buona fede, convinto che gli aerei avvistati fossero un gruppo di bombardieri americani B17 Flying Fortress, il cui arrivo era atteso da un momento all’altro. Invece, si trattava della prima forza di attacco giapponese decollata da sei portaerei che, senza un’ufficiale dichiarazione di guerra ma in base a un piano studiato per mesi, stava per bombardare la base. Ignara di vivere la sua ultima domenica di pace.
L’attacco dei samurai del cieloIl «giorno dell’infamia»
Alle 7.55 i velivoli con la palla rossa del Sol Levante, 183 tra bombardieri in picchiata e in quota, aerosiluranti e caccia di scorta, presero di mira le 96 navi della Us Navy ormeggiate inermi lungo i moli. I samurai del cielo, facendo seguito al messaggio in codice «Tora! Tora! Tora!» («Tigre! Tigre! Tigre!»), attaccarono la flotta americana del Pacifico. E continuarono a farlo, quasi indisturbati, fino alle 8.40. Alle 8.54 una seconda ondata di 171 aerei riprese a bersagliare la base navale. La reazione statunitense fu quasi nulla: alla fine 18 navi risultarono fuori combattimento (otto corazzate — l’Arizona 75 anni dopo giace ancora, rovesciata, sul fondo della baia — tre incrociatori leggeri, tre caccia e quattro unità ausiliarie), 178 aerei distrutti e altri 159 danneggiati. Le perdite umane furono stimate in 2403 morti e in 1178 feriti. Non restava che un arcipelago in fiamme. Sette ore più tardi l’imperatore giapponese Hirohito firmò la dichiarazione di guerra da consegnare ai diplomatici americani.
Quel 7 dicembre di 75 anni fa sarebbe passato alla storia come «giorno dell’infamia». A definirlo così fu Franklin Delano Roosevelt, il Presidente Usa in carica, nel suo primo discorso di guerra al Congresso in seduta plenaria: «Ieri, 7 Dicembre 1941, una data segnata dall’infamia, gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente ed intenzionalmente attaccati dalle forze aeree e navali dell’Impero del Giappone. Gli Stati Uniti erano in pace con questo paese (...) Non importa quanto tempo occorrerà per riprenderci da questa invasione premeditata, il popolo americano con tutta la sua forza riuscirà ad assicurarsi una vittoria schiacciante». Il piano fu concepito e guidato dall’ammiraglio Isoroku Yamamoto che, al momento dell’attacco, si trovava nella baia di Hiroshima, a bordo della corazzata Nagato. Con perdite trascurabili (29 aerei, 5 sommergibili tascabili, 64 morti), la marina giapponese aveva inferto un colpo apparentemente mortale a quello che era stato individuato come il più temibile avversario per le ambizioni imperiali di Tokio. Tuttavia l’«operazione Z», dal nome della bandiera inalberata nella battaglia di Tsushima del 1905 contro i russi, aveva mancato il suo obiettivo primario: le tre portaerei Enterprise, Lexington e Saratoga, scampate all’attacco perché in navigazione. La loro sopravvivenza avrebbe avuto conseguenze sullo sviluppo delle successive operazioni belliche nel Pacifico, consentendo agli Stati Uniti, una volta ripresisi dallo choc, di passare alla controffensiva fin dalla primavera del 1942, con le battaglie navali del Mar dei Coralli e di Midway.
L’attacco giapponese agli Usa 75 anni da Pearl Harbor
Le reazioniLa guerra diventa mondiale
Quando la notizia dell’attacco si diffuse in America nel primo pomeriggio di 75 anni fa, l’intero Paese fu scosso da una ondata di indignazione e rabbia. Certo, c’era anche chi pensava che l’attacco fosse motivato. Come viene detto nel film di Sidney Lumet A prova di errore: «I giapponesi hanno fatto bene a farlo. Per loro eravamo il nemico più implacabile. Noi per il solo fatto di esistere eravamo una mortale minaccia. L’unico loro sbaglio fu di non finirci in poche settimane, e questo sbaglio lo pagarono a Hiroshima». In Gran Bretagna, alle ore 21.00, il primo ministro Winston Churchill, a cena con l’inviato di Roosevelt Averell Harriman e l’ambasciatore americano in Gran Bretagna John G. Wynant, apprese la notizia dalla radio. Churchill chiese ed ottenne nel giro di due minuti una comunicazione diretta con la Casa Bianca. «Signor Presidente, cos’è questa faccenda del Giappone?». «E’ vera», rispose Roosevelt. «Ci hanno attaccati a Pearl Harbor. Ora ci troviamo tutti sulla stessa barca». Con il suo tipico pragmatismo, Churchill, che da mesi lavorava per un intervento americano, replicò: «Questo di certo semplifica le cose. Dio sia con voi». Quella sera, racconterà poi il premier inglese nella sua storia della Seconda guerra mondiale «mi misi a letto eccitato e felice e con l’animo grato dormii il sonno di chi è stato salvato da un grave pericolo».
Gli Usa erano in guerra, la Gran Bretagna non era più sola in Occidente, la sconfitta della Germania diventava probabile. Come scrive Bernard Millot ne La guerra nel Pacifico (Rizzoli 2002): «Quasi tutti gli americani nel continente seppero dalla radio la notizia sorprendente… Si trattava di un brutale risveglio alla realtà. I comunicati, in mancanza di particolari, sottolinearono il carattere infamante di quell’attacco a tradimento… il colpo era violento e doloroso, ma aveva in sè quel germe fecondo che doveva galvanizzare gli americani... L’importanza attribuita a questa retorica intorno alla parola infamia aveva in realtà lo scopo, da un lato di nascondere la nota impreparazione delle forze armate degli Stati Uniti e, dall’altro, di trascinare l’America una grande guerra punitiva».
Colpe e responsabilitàLe misure anti Tokio
La definizione di «giorno dell’infamia» data da Roosevelt fu così icastica e indovinata non solo da essere arrivata fino a noi, ma anche da avere, in un certo modo, fatto da lente deformante per la lettura di quel giorno e degli anni che seguirono. A tal punto che l’attacco a tradimento lanciato dagli aerei giapponesi ha perfino giustificato ex post un’azione spaventosa come il lancio delle due prime bombe atomiche della storia su altrettante città gremite di civili. Ma c’è dell’altro: poiché il Giappone fu un alleato di Germania e Italia, di nazismo e fascismo, anche la sua vicenda è stata letta attraverso il filtro del rifiuto di quelle ideologie che hanno prodotto o sono state complici dell’orrore assoluto della Shoah e delle altre stragi razziali. La narrazione democratica si è quindi sovrapposta a quella americana per produrre una condanna senza appello delle azioni di Tokio, a partire almeno da quel fatale 7 dicembre, se non da prima. Ma in anni nemmeno troppo recenti la storiografia ha cercato di leggere il comportamento giapponese in modo meno ideologico, pur senza per questo giustificare gli orrori di cui pure i soldati del Sol Levante si sono resi responsabili, dallo stupro di Nanchino (1937-38) alle marce della morte dei prigionieri di guerra dopo la resa di Bataan e di Singapore (1941-42), fino all’orgia di sangue di Manila nel 1945.
D’altronde per la Germania è successo lo stesso. Anche se nessuno, a parte i negazionisti folli e i nazisti irriducibili, intende giustificare l’Olocausto, gli storici sono ormai d’accordo sul fatto che la pace vendicativa di Versailles e il concetto di «colpa» tedesca per la Grande Guerra furono tra le cause principali del Secondo conflitto mondiale. In altre parole Hitler e il nazismo furono il sistema che la Germania scelse per rovesciare una situazione intollerabile. Pearl Harbor fu sicuramente un vile attacco a tradimento. Ma fu anche il modo con cui un sistema statuale frustrato nelle proprie aspirazioni nazionali e messo nell’angolo dagli avversari decise di reagire. Patrick Buchanan, nel suo «Hitler, Churchill and the unnecessary war» (Crown, 2008), fa risalire la prima frustrazione al trattato uscito dalla conferenza navale di Washington (novembre 1921-febbraio 1922). La Gran Bretagna di fatto ruppe l’alleanza con il Giappone che le era stata molto utile durante la Prima guerra mondiale per schierarsi al fianco degli americani, nonostante la loro scelta neo-isolazionista li rendesse alleati ben poco affidabili. Il trattato prevedeva la cosiddetta formula del 5-5-3, ossia che le costruzioni di nuove navi da guerra inglesi, americane e giapponesi sarebbero state bloccate per dieci anni e quelle esistenti sarebbero state rottamate fino ad arrivare a un possesso di 500 mila tonnellate di stazza per Usa e Impero britannico, mentre il Giappone veniva limitato a 300 mila tonnellate.
L’ambizione di essere un imperoLa Cina inconquistabile
Tokio aderì ma visse la limitazione come un insulto («Si sono presi le Rolls Royce e ci hanno lasciato le Ford», commentò un diplomatico) e rispose all’isolamento in cui era stato lasciato affidandosi sempre più a quell’oligarchia burocratico-militare che lo avrebbe condotto alla guerra. Ben presto il Giappone, messo ai margini dalla comunità internazionale ma che si sentiva (ed era) una grande potenza, decise che aveva il diritto, come le sue pari, di avere un proprio impero in Asia, cui diede poi il nome altisonante di «Sfera di Coprosperità della Grande Asia Orientale». Anzi, sentiva di avere un diritto ancora maggiore: era un popolo asiatico e assisteva al dominio del Continente da parte di americani, inglesi e olandesi che dalla loro avevano solo il diritto della forza esercitato fin dal XVII secolo e diventato poi consuetudine «democratica». Oggi questa mentalità ci risulta quasi incomprensibile, avendo noi ripudiato il concetto di impero propriamente detto e avendolo sostituito con quello di dominio economico che ci fa (non sempre in maniera giustificata) meno impressione e offende meno le coscienze. Ma negli anni Trenta essere una grande potenza e non avere un impero appariva come una contraddizione in termini, come ben sappiamo noi italiani che nel 1936 andammo in Etiopia cercando di conquistarne uno. Così fu per il Giappone.
Prima venne l’occupazione della Manciuria, trasformata da Tokio nello stato fantoccio del Manciukuò nel 1932, e poi quello che fu eufemisticamente chiamato «l’incidente cinese», ossia l’invasione della Cina iniziata nel 1937 attuata quasi per iniziativa autonoma dell’armata giapponese del Kwantung e che fu accettata con riluttanza dal governo messo di fronte al fatto compiuto. Peraltro en passant va ricordato che nel frattempo il nazionalismo nipponico era cresciuto a tal punto che i membri del governo di quella che era, sia pure a suo modo, una democrazia, rischiavano (e in qualche caso persero) la vita per mano dei terroristi nazionalisti se osavano mettersi di traverso alla politica di conquista. Ben presto i governanti più avvertiti capirono di essersi cacciati un bel guaio. La Cina era semplicemente inconquistabile per la sua vastità e le divisioni del generalissimo Chiang Kai-scek (il Giappone si scontrò soprattutto con i nazionalisti, i comunisti guidati da Mao Ze-dong ebbero un ruolo assai più marginale nella lotta anti-nipponica), per quanto militarmente poco valide, erano numerose e potevano contare su un rivolo di aiuti che attraverso la strada della Birmania, arrivavano da Gran Bretagna e Stati Uniti. Quattro anni di guerra di occupazione in Cina avevano finito per dissanguare il Giappone; l’industria tessile lavorava al 40-50% delle proprie possibilità, parecchi prodotti di prima necessità erano ormai razionati e la miseria si diffondeva sempre più.
Le ultime trattativeEmbarghi e confischeIl codice «Magic»
Gli Usa, in cui una parte significativa dell’opinione pubblica liberal colta e una forte componente del dipartimento di Stato, il ministero degli Esteri (la cosiddetta China Lobby), si sentivano investiti di una specie di alto patronato sulla Cina, erano intervenuti con mano pesante per frenare l’espansione giapponese attraverso azioni di guerra economica. Un concetto che oggi sappiamo essere altrettanto distruttivo e lesivo dell’orgoglio nazionale quanto una guerra guerreggiata, anche se non comporta stragi e vite perdute. Nel 1956, per esempio, agli Stati Uniti bastarono pochi giorni di vendite massicce di sterline sui mercati internazionali per costringere gli inglesi a ritirarsi dall’infausta invasione dell’Egitto. E in questi anni sappiamo bene che, ironia della sorte, gli Stati Uniti devono trattare Pechino con i guanti visto che la Cina possiede quote consistenti di titoli del Tesoro Usa, grazie ai quali tiene in pugno il benessere economico del popolo americano. Alla fine degli anni Trenta il concetto che sanzioni mirate potessero essere quasi un atto di guerra era percepito con meno chiarezza, anche perchè ritenuto inefficace: le sanzioni erano state applicate dalla Società delle Nazioni all’Italia per il suo attacco all’Etiopia (1936) ma il loro uso era stato talmente tiepido (per esempio escludeva il petrolio) che perfino un’economia debole come quella dell’Italia fascista non era stata messa troppo in crisi. Gli Stati Uniti sottoposero il Giappone, un paese quasi del tutto primo di materie prime, a uno strangolamento progressivo, mettendo embarghi via via più stretti sulle esportazioni di petrolio, rottami ferrosi, stagno, zinco, acciaio. Le misure divennero più pesanti dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale e la caduta della Francia (giugno 1940).
Non solo il Giappone il 27 settembre del 1940 era entrato nel Patto Tripartito con Italia e Germania (schierandosi quindi ufficialmente con i nemici delle democrazie occidentali), ma aveva approfittato della debolezza di Vichy per occupare l’Indocina francese, dando nuova prova delle sue ambizioni «imperiali». Nonostante le pressioni tedesche, Tokio si era messa al riparo sul suo fianco continentale stipulando fin dall’aprile 1941 un patto di non aggressione con l’Unione sovietica (attaccata poi da Hitler in giugno). Tokio era pronta a colpire a sud. Il 26 luglio 1941, Roosevelt congelò le attività finanziarie giapponesi negli Usa, mettendo la parola fine alle relazioni commerciali fra le due nazioni, che pure avevano dimensioni imponenti: le esportazioni giapponesi verso gli Usa erano il 40% del totale nazionale e le importazioni sfioravano il 50% . Gli inglesi e gli olandesi seguirono a ruota ponendo sotto embargo le esportazioni verso il Giappone provenienti dalle loro colonie del Sud-est asiatico. Il Paese vide le proprie riserve di petrolio assottigliarsi pericolosamente: se la situazione non si fosse risolta in tempi brevi, avrebbe dovuto abbandonare la guerra in Cina e rinunciare per sempre a ogni ambizione, una situazione intollerabile per i circoli nazionalisti del Paese. Quando nel luglio del 1941 cominciarono le trattative dirette tra Washington e Tokio per risolvere la situazione, lo schieramento era ben delineato: da una parte una gigantesca potenza industriale che, pur non volendo rinunciare al suo isolazionismo (che comportava una preparazione bellica ancora ridotta, anche se in ripresa), era pronta a imporre la propria volontà; dall’altra un impero nascente che si sentiva chiuso in un angolo, ben deciso a non perdere la faccia ma conscio della propria debolezza economica e quindi del fatto che l’eventuale superiorità militare era destinata a svanire in tempi brevi.
Secondo la «Storia della Seconda guerra mondiale» pubblicata da Penguin (1972) di Peter Calvocoressi, Guy Wint e John Pritchard, tutte le trattative non furono altro che un disperato tentativo del Giappone di uscire in qualche modo dall’impasse cinese con l’aiuto americano. Roosevelt e i suoi collaboratori sapevano di mettere il Giappone in una situazione insostenibile e che con ogni probabilità Tokio avrebbe presto tentato di sfuggire allo strangolamento entrando in guerra. Avendo decriptato da tempo il codice diplomatico avversario grazie al lavoro della struttura di decifrazione «Magic», i dirigenti americani conoscevano cosa aveva comunicato il Ministro degli Esteri Tijiro Toyoda all’Ambasciatore Kichisaburo Nomura il 31 luglio 1941: «I rapporti economici e commerciali fra il Giappone e i paesi terzi, guidati da Inghilterra e Stati Uniti, stanno gradualmente diventando così orribilmente tesi da non poterli più sopportare a lungo. Pertanto, il nostro Impero, per salvaguardare la propria esistenza, deve prendere le misure per assicurarsi le materie prime dei Mari del Sud» (citato in «La vera strada per Pearl Harbor» di George Morgenstern, pag. 329).
Entrare in guerra o arrendersi (da deboli)?Il complotto
Casa Bianca e Dipartimento di Stato decisero comunque di non allentare le pressioni. L’allora segretario di Stato Cordell Hull era convinto che alla fine il Giappone avrebbe fatto marcia indietro, se non altro perchè influenti circoli di Tokio apparivano ben decisi a evitare la guerra. Il Giappone arrivò ad offrire l’assicurazione di non dichiarare guerra agli Stati Uniti perfino se questi ultimi fossero entrati in conflitto armato con la Germania. In altre parole Tokio, pur senza dirlo ufficialmente, si offriva di uscire dal patto Tripartito appena siglato, che era essenzialmente un trattato anti-americano. Ma Washington si dimostrò irremovibile: se il Giappone voleva che l’embargo fosse tolto, avrebbe dovuto ritirarsi dall’Indocina, dalla Cina e dalla Manciuria. A quel punto a Tokio la parola passò a generali e ammiragli e la guerra divenne inevitabile. Il governo giapponese inviò a Washington un’ultima nota diplomatica annunciando di fatto la rottura delle trattative. Ma problemi di traduzione e ritardi nella comunicazione fecero sì che il documento arrivasse al dipartimento di Stato mentre già le bombe cadevano su Pearl Harbor, infliggendo al Giappone quel marchio di infamia che non lo avrebbe più abbandonato fino ai nostri giorni. E non è un caso che proprio in occasione del 75° anniversario il primo ministro Shinzo Abe abbia sentito la necessità di essere il primo governante a visitare la base navale degli antichi nemici (sfiora l’icona blu per leggere la notizia su Corriere.it). «Deve essere sottolineato — scrivono Calvocoressi & C. — che le inevitabili conseguenze delle pressioni economiche degli Stati Uniti sul Giappone e il fallimento americano di perseguire i negoziati diplomatici con gli appropriati vigore, flessibilità e immaginazione, furono che alla fine il Giappone ebbe solo la possibilità di scegliere tra la guerra e una resa con ignominia».
Proprio il fatto che gli americani, grazie a «Magic», erano ben informati sulle intenzioni giapponesi ma si fecero ugualmente cogliere di sorpresa dall’attacco di Pearl Harbor ha dato origine all’immancabile teoria del complotto. L’amministrazione Roosevelt avrebbe provocato deliberatamente Tokio con le misure economiche in modo da farsi attaccare a tradimento e poter così sfruttare l’indignazione popolare per entrare in guerra contro le potenze dell’Asse vincendo l’isolazionismo ancora molto forte dell’elettorato americano. Non solo, ma avrebbe trascurato volutamente le difese per risvegliare, di fronte alle conquiste nemiche, lo spirito di vendicativo patriottismo del Paese, pur avendo l’accortezza di risparmiare dalla distruzione le vitali portaerei facendole uscire in mare proprio il giorno dell’attacco. Diciamo subito che non esistono documenti che provino in maniera confutabile o inconfutabile questa tesi. Né, a parere di chi scrive, se ne troveranno mai: queste macchinazioni, se esistono, non vengono messe per iscritto e neppure se ne parla apertamente, nemmeno ai più alti livelli. Può esistere, invece, un comune sentire di un gruppo dirigente che lentamente e con piccoli aggiustamenti tenta di pilotare gli eventi verso un obiettivo ritenuto fondamentale. Sicuramente la politica estera di Roosevelt fin dallo scoppio della guerra in Europa, nel settembre 1939, fu di graduale avvicinamento alla Gran Bretagna e di crescente ostilità verso i paesi dell’Asse. La teoria cosiddetta «Germany First» (secondo la quale, in caso di guerra contro Germania e Giappone, la Gran Bretagna e gli Usa avrebbero prima dovuto concentrarsi sulla sconfitta tedesca, poiché Berlino era l’avversario più pericoloso), è del marzo 1941, ben prima che la situazione nel Pacifico precipitasse, a dimostrazione che l’ipotesi di una guerra globale era tutt’altro che lontana dalla mente del Presidente.
Pearl Harbor, a 74 anni dall'attacco giapponese: la cerimonia del 2015
L’«arsenale delle democrazie» Un attacco al momento giusto
La legge «Affitti e prestiti» (la possibilità, per la Gran Bretagna prima e per la Russia poi, di acquistare a credito il materiale bellico americano), la concezione degli Stati Uniti come «arsenale delle democrazie», la decisione di far scortare i convogli diretti in Gran Bretagna da navi americane per la prima parte del loro tragitto, furono altrettante tappe di avvicinamento a uno stato di guerra con la Germania. Tuttavia il popolo americano (in cui le minoranze di origine italiana, tedesca e irlandese erano influenti e risolutamente anti britanniche) era ancora ben deciso a non farsi coinvolgere in una guerra europea. Ed è quindi possibile, ripetiamo POSSIBILE, che qualcuno non abbia visto di malocchio un gesto eclatante da parte del nemico che sbloccasse la situazione. Ma da qui a ipotizzare un atto deliberato di provocazione e la decisione di farsi cogliere impreparati dagli attacchi non solo a Pearl Harbor ma anche alle Filippine e all’Indonesia ce ne corre. Nuovi documenti venuti alla luce fin dagli anni Novanta. hanno smentito anche l’ipotesi che Churchill, che aveva consigliato a Roosevelt di essere duro con il Giappone e, come abbiamo visto, aveva tutto l’interesse a un’entrata in guerra dell’America, abbia saputo qualcosa dell’attacco e abbia volutamente tenuto nascoste le informazioni alla Casa Bianca. La teoria che dietro il giorno dell’infamia ci fosse in realtà una sapiente regia americana emerse molto presto, tanto che lo storico britannico Basil Liddell Hart scrive: «… Il colpo di Pearl Harbor nel 1941 costituì un tale choc da suscitare non solo quasi unanimi critiche verso le autorità capeggiate dal presidente Roosevelt, ma anche il profondo sospetto che il disastro fosse da attribuire a fattori più gravi della cecità e della confusione». Al momento della pubblicazione del libro di Hart (1970), i documenti della marina americana che avrebbero potuto contribuire a chiarire i fatti e le intenzioni erano però ancora coperti da segreto militare.
Solo con l’autorizzazione nel 1979 del Presidente Jimmy Carter, che rese disponibili i testi tradotti delle intercettazioni dei messaggi della marina nipponica, e con l’applicazione più aperta del «Freedom of Information Act», è stato possibile approfondire alcuni aspetti della questione, anche se la tesi revisionista è ancora ben lungi dall’essere accettata. Poiché i crittografi americani avevano decifrato, anche se in misura imperfetta, il codice navale giapponese, i leader di Washington sapevano o potevano intuire che le «misure» del Giappone avrebbero potuto includere un attacco a Pearl Harbor, come sostiene Robert B. Stinnett in «Day of Deceit: The Truth About FDR and Pearl Harbor» («Il giorno dell’inganno: la verità du F.D. Roosevelt e Pearl Harbor», Free Press, 2000). Però avrebbero nascosto questa seria informazione ai comandanti alle Hawaii, impedendo loro di affrontare l’attacco o prepararsi alla difesa. Come il ministro della Guerra Henry Stimson scrisse nel suo diario dopo una riunione del Gabinetto di Guerra il 25 novembre 1941: «La questione era come dovevamo manovrarli (i giapponesi) per portarli a sparare il primo colpo senza causare troppi danni a noi stessi». Dopo l’attacco Stimson ammise che «il mio primo pensiero fu il sollievo…..che si stava delineando una crisi che avrebbe unito tutto il nostro popolo» (Morgenstern). «Avevamo bisogno — avrebbe aggiunto in seguito — che i giapponesi facessero il primo passo» (Stimson come citato in «Pearl Harbor Myth» di George Victor, 2007).
La lezione del VietnamDopo Pearl HarborIl risveglio del gigante
E’ da notare però che non è affatto vero che l’allarme non fu dato: tutti i comandi americani del Pacifico erano stati preavvisati, anche se non in modo dettagliato per evitare di far capire ai giapponesi che i loro cifrari erano stati violati. La verità è che nessuno riteneva che i Giapponesi avrebbero fatto una cosa tanto illogica come un attacco diretto agli Stati Uniti. Come scrive Gordon W. Prange nel suo monumentale lavoro dedicato all’attacco («Pearl Harbor, la storia segreta», Rizzoli, 2001), i pianificatori di Washington «invece di valutare che cosa ci si potesse ragionevolmente aspettare dal governo di Tokio, avrebbero dovuto concentrarsi su che cosa esso avesse la capacità di fare (...) Non presero in considerazione una della lezioni della storia: una nazione cosiddetta “ non abbiente” può essere in possesso di una volontà e di capacità molto superiore alle proprie risorse. Una generazione successiva di americani lo imparò sulla propria pelle in Vietnam dove, mancando la volontà di vincere, gli Stati Uniti subirono una umiliante sconfitta».
Dopo l’attacco alle Hawaii, la marea giapponese dilagò in tutta l’Asia sud orientale. In pochi mesi le truppe del Sol Levante, con l’impiego di poche divisioni altamente addestrate e di una marina e di un’aviazione sia di terra che imbarcata dall’addestramento superlativo, si impadronirono di Filippine, Malesia, Hong Kong, Singapore, Indonesia, Borneo e di molti atolli e arcipelaghi che furono fortificati come avamposti contro un ritorno offensivo dell’Occidente. Con l’attacco alle Salomone e alla Nuova Guinea arrivarono a minacciare l’Australia e con l’invasione della Birmania lambirono i confini dell’India, il Raji britannico, il cuore dell’impero di Sua Maestà, infliggendo al suo prestigio un danno dal quale non si sarebbe mai più ripreso. L’obiettivo era stato raggiunto, le “terre dell’eterna estate” (come le chiamavano nella loro poetica e crudele visione del mondo) ricche di petrolio e materie prime erano in loro possesso. Ben pochi in Giappone pensavano di poter battere gli Stati Uniti in una guerra prolungata. Troppo forte era la disparità economica: nel 1938, ed è solo un esempio, il reddito nazionale lordo americano era stato di 84,7 miliardi di dollari, quello del Giappone di 5,73 miliardi. Speravano però di rendere la controffensiva così costosa da spingere Washington alla ricerca di un accordo che li lasciasse in una situazione geo-strategica migliore di quella da cui erano partiti. Speranza vana.
Le battaglie del mar dei Coralli e di Midway (maggio e giugno 1942) mandarono a picco quattro delle sei portaerei che avevano partecipato all’attacco a Pearl e fermarono l’avanzata del Giappone. E in seguito lo squilibrio militare ed economico tra Tokio e i suoi avversari (oltre al valore e alla capacità dei soldati, marinai e aviatori americani) rese inutili ogni eroismo e ogni resistenza: nel solo 1943 gli Stati Uniti produssero 80,6 milioni di tonnellate di acciaio e 55,8 milioni di tonnellate di ferro contro, rispettivamente, 6,1 milioni e 5,1 milioni rese disponibili per la macchina bellica nipponica. Nei tre anni dopo la battaglia di Midway, il Giappone riuscì a varare con fatica solo sei portaerei di squadra, mentre dai cantieri americani ne uscirono 17. E il possesso delle isole dell’eterna estate fu inutile: ben poche materie prime arrivarono in patria grazie all’azione implacabile dei sommergibili statunitensi (affondarono da soli il 50% del naviglio mercantile nipponico) e dello strapotere aeronavale a stelle e strisce. Alla fine, con lo sbocciare dei funghi atomici su Hiroshima e Nagasaki (agosto 1945), si avverò la fosca profezia attribuita a Yamamoto, lo stratega di Pearl Harbor: «Temo che tutto ciò che abbiamo fatto sia stato risvegliare un gigante addormentato e infondergli una terribile volontà di vendetta» (Sfiora l’icona blu per leggere il webreportage sulle bombe di Hiroshima).
5 dicembre 2016